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Un padre prova ad affrontare la morte del figlio

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Kzenon/Shutterstock

TOMMY TIGHE - pubblicato il 03/05/16

Nel momento in cui la maggior parte dei genitori prepara la stanza del bambino, noi ci prepariamo a un incontro con il cimitero

È stato un percorso, quello che abbiamo compiuto dal giorno in cui ci è stato detto che la nostra gravidanza sarebbe terminata con la morte certa del nostro amato bambino ad oggi, a poche settimane (nella migliore delle ipotesi) dal giorno in cui arriverà e velocemente se ne andrà.

Man mano che ci avvicinavamo alla sua nascita, abbiamo lavorato davvero sodo per cercare di apprezzare ogni momento con il nostro piccolo. Anziché permettere che i suoi calci e i suoi movimenti ci ricordassero la sua imminente perdita, abbiamo compiuto un serio sforzo per amarlo completamente nel tempo che ci rimane da trascorrere con lui.

Ma ad ogni piccolo crampo, ad ogni contrazione di Braxton­Hicks ci viene ricordato che il nostro tempo si sta esaurendo.

E nonostante i miei sforzi per concentrare i miei pensieri sul dono di questa vita, man mano che i giorni e le settimane passano, tutto quello a cui riesco a pensare è quella maledetta scatola.

Nel momento in cui la maggior parte dei genitori sta preparando la stanza per il bambino, esaminando gli ultimi prodotti infantili del tutto superflui e pianificando cosa mangiare e a cosa giocare per la festa di benvenuto del loro piccolo, noi ci si siamo preparati a un incontro con un cimitero. Ci siamo seduti intorno al tavolo della nostra sala da pranzo a discutere di un funerale e di una sepoltura.

Dovevamo scegliere quella maledetta scatola.

La vedo quando chiudo gli occhi, di tanto in tanto. Quella piccola scatola in cui il corpo del mio splendido bambino aspetterà di tornare da Nostro Signore, e mentirei se dicessi che a pensarci non sono rimasto completamente devastato.

Il mio cuore è spezzato al di là di quello che le parole riescono a esprimere, e non passa giorno in cui non mi senta sopraffatto dalla paura per quello che accadrà inevitabilmente.

Questa è in genere la parte dell’articolo in cui l’autore presenta un approccio positivo, un nuovo modo di guardare a una situazione difficile e un bel messaggio da portare a casa in chiusura del pezzo.

Ma questo non è uno di quegli articoli.

Riguarda invece come le prove che affrontiamo possono avvolgerci in un’oscurità che rende difficile vedere la luce della speranza. Riguarda il modo in cui il senso di impotenza e di disperazione possono far sì che tener viva la fede sia una vera lotta.

Riguarda come dobbiamo capire che va tutto bene anche così.

Nelle situazioni difficili non troveremo sempre un lato positivo; non otterremo sempre un’intuizione profonda di fronte alle nostre tragedie.

Dio non permette la sofferenza nella nostra vita solo perché vuole che sperimentiamo un’intuizione. È un grande mistero il perché permetta la sofferenza, e soprattutto perché gli innocenti debbano soffrire tanto. Non sappiamo il motivo, ma penso che permetta la sofferenza perché vuole che diciamo di sì all’essere aperti a “stare” nella sofferenza e a sperimentarla. Vuole che ci avviciniamo a Lui attraverso il nostro momento del Getsemani: pregando perché la nostra sofferenza passi ma essendo disposti a sopportarla se questa è la sua volontà.

Vuole che gli diciamo di sì senza alcuna aspettativa di consolazione.

Vuole che chiudiamo i nostri occhi, visualizziamo quella maledetta scatola e andiamo avanti.

Tommy Tighe è un marito e padre cattolico. Si può seguire su Twitter: @theghissilent.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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