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Il cristiano davanti alla morte

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Shutterstock / Antonio Guillem

Encuentra.com - pubblicato il 27/04/16

Alcune chiavi per comprendere la fine della vita

Viviamo normalmente un determinato numero di anni, avendo sofferto come tutti di alcune malattie passeggere. Un bel giorno, però, scopriamo con dolore di avere un cancro, e quel corpo tanto fedele, tanto duraturo, tanto utile, inizia a crollare in modo irrimediabile. E dopo molte o poche cure, in un arco di tempo più o meno breve, moriamo.

O può accadere che siamo perfettamente sani e veniamo fulminati da un arresto cardiaco o rimaniamo vittime di un incidente fatale.

Alla fine, in un modo o nell’altro, TUTTI MORIREMO. Assolutamente nessuno sfuggirà alla morte. È la realtà più irrefutabile del mondo. Da quando veniamo concepiti nel grembo di nostra madre siamo per definizione mortali.

La morte è il momento critico della vita. Di fronte ad essa, la debolezza e l’impotenza dell’uomo assumono tutto il loro realismo. Quando qualcuno è morto, restano le spoglie di un defunto: il cadavere.

Questa situazione provoca nei familiari e nella comunità cristiana un clima molto complesso. Il corpo di un morto suscita domande, questioni insopportabili. Fa pensare al senso della vita e di tutto, provoca un dolore acuto di fronte alla separazione e all’annichilimento. Chiunque abbia contemplato la drammatica immobilità di un cadavere non ha bisogno di definizioni da dizionario per constatare che la morte è qualcosa di terribile.

Quella persona cara di cui abbiamo tanti ricordi, che ha intracciato la sua vita con la nostra, è ora un oggetto, una cosa da togliere di mezzo, perché alla morte segue la decomposizione. Bisogna seppellirla. E dopo il funerale, quando ci allontaniamo dalla tomba, pensiamo con Becquer: “Quanto restano soli e tristi i morti!”

Cos’è la morte?

La definizione data da un dizionario molto in voga è “la cessazione definitiva della vita”, e si definisce la vita come “il risultato del funzionamento degli organi, che concorre allo sviluppo e alla conservazione del soggetto”.

Bisogna riconoscere che queste e altre definizioni sia della vita che della morte non esprimono tutta la bellezza della prima e tutto l’orrore della seconda.

La morte è tragica. L’uomo, che è un essere vivente, si trova di fronte alla morte, che è la contraddizione di tutto ciò a cui un essere umano anela: progetti, futuro, speranze, illusioni, prospettive e realtà magnifiche.

Atteggiamento istintivo davanti alla morte

Non stupisce, quindi, l’orrore nei confronti della morte, e non solo del misterioso momento della “cessazione della vita”, ma forse ancor di più del processo doloroso che ci porta alla morte.

Abbiamo il meraviglioso istinto di conservazione che ci fa difendere e lottare per la vita. Sappiamo che la vita è un dono formidabile e l’umanità ama la vita, propaga la vita, difende la vita, prolunga la vita e odia la morte.

In molti casi lottiamo per la vita anche se questa è un vero inferno.

Se ci sono persone che al colmo della disperazione ricorrono al suicidio, la cosa normale è non voler morire ed essere disposti ad affrontare tutte le sofferenze e a spendere tutta la nostra fortuna per curare un malato. Lottiamo per strappare alla morte una persona cara a qualsiasi costo, a volte perfino contro la volontà dell’interessato. La vita è la vita!

Grazie ai progressi della scienza e della tecnologia, possiamo ora ricorrere a metodi sensazionali nella lotta contro la morte.

Ne è un esempio il trapianto di organi, anche del cuore. In alcune occasioni, purtroppo, questa lotta non è in realtà un prolungamento della vita, ma una dolorosa agonia senza senso. Ci sentiamo obbligati a tirar fuori dal corpo del malato agonizzante anche l’ultimo battito di un cuore che da sé si fermerebbe.

È un triste spettacolo vedere i nostri cari pieni di tubi e circondati da apparecchi sofisticati in una sala di terapia intensiva. Non ci rassegniamo a lasciarli morire.

La morte degna

Si pone ora la questione del diritto a una “morte degna”. Con questo dobbiamo intendere il diritto della persona a decidere da sé il trattamento della sua malattia. Quando il corpo ha già compiuto il suo ciclo normale di vita, non c’è obbligo di ricorrere a “metodi straordinari” per prolungare la vita, come dice la Chiesa. Il malato ha il diritto di chiedere che lo lascino morire in pace.

Può arrivare il momento in cui non è giusto mantenere artificialmente viva una persona, a costo della persona stessa. Le sofferenze di un’agonia prolungata per un’idea sbagliata di ciò che sono la vita e la morte non hanno senso.

Una cosa, però, è prescindere dai metodi straordinari, un’altra è provocare la morte, crimine che è chiamato eutanasia. Non si può neanche chiamare il suicidio “morte degna”. Non siamo obbligati a rimandare dolorosamente il momento della morte né possiamo provocarla.

Sappiamo qualcosa dell’aldilà?

Da che l’uomo è uomo ha avuto l’intuizione che la vita, in qualche modo, non termini con la morte. Le più antiche testimonianze archeologiche dell’umanità sono proprio le tombe, nelle quali possiamo scoprire l’idea che le varie culture avevano dell’aldilà.

Allo stesso modo, l’uomo ha sempre cercato in mille modi di entrare in contatto con i defunti. Vari tipi di spiritismo, apparizioni, fantasmi e anime in pena sono stati un tentativo vano e superstizioso di sapere qualcosa del post mortem.

Quante teorie ha inventato l’uomo! Quanti esperimenti ha fatto! Proliferano libri, romanzi e riviste, dai più innocenti ai più tremendi, passando per la fantascienza che ostenta solidità scientifica ma non fa altro che far scoprire la sua falsità.

La realtà è che i nostri sforzi per indagare su ciò che succede dopo la morte sono fin troppo frustranti. Possiamo dire che tutto resta a livello di speculazioni, alcune del tutto sbagliate o fraudolente, che non spiegano nulla e non consolano nessuno. Non sappiamo praticamente niente.

Una luce nelle tenebre

Il nostro Creatore, profondo conoscitore della nostra natura umana, non avrebbe tuttavia potuto lasciarci nelle tenebre su una questione così inquietante e importante come la morte e quello che accade nell’aldilà.

Nel suo immenso amore per l’umanità, ci ha inviato il suo Figlio Unigenito, la sua Seconda Persona Divina, come Luce del Mondo.

In Gesù Cristo Nostro Signore tutte le tenebre vengono dissipate. La sua infinita saggezza ci illumina fino a dove Egli ha voluto che vedessimo. “Io sono la Luce del Mondo. Chi segue me non camminerà nelle tenebre”.

Siamo immortali

Tutta la Sacra Scrittura ci insegna al riguardo, ma è soprattutto il Nuovo Testamento che ci fa scoprire il senso della vita e della morte e ci fa intravedere ciò che Dio ha preparato per noi nell’eternità.

La prima cosa che dovrebbe stupirci è il fatto che Dio, l’eterno per antonomasia, abbia voluto condividere la nostra natura umana al punto da soffrire anche Lui la morte.

Gesù Cristo non è venuto a sopprimere la morte, ma a morire per noi. “Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,8). Il mistero della Croce ci insegna fino a che punto il peccato è nemico dell’umanità, visto che si è accanito perfino nell’umanità santissima del Verbo Incarnato.

Nella sua vita pubblica, il Signore Gesù si è riferito in molti modi al momento della morte e alla sua importanza.

La volta in cui i sadducei, che non credevano all’altra vita, gli hanno chiesto maliziosamente di chi sarebbe stata una donna che aveva avuto sette mariti una volta morta, Gesù ha risposto loro: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20,34-36)

Quando è morto il suo amico Lazzaro, di fronte alla professione di fede di Marta il Signore ha detto: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11, 25).

Bisogna tener conto del fatto che quando Gesù parla della vita a volte si riferisce esplicitamente alla vita del corpo, che promette sarà restituita con la resurrezione della carne: “Non vi meravigliate di questo, poiché verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna” (Gv 5,28-29).

In altre occasioni, invece, si riferisce alla Vita della Grazia, ovvero alla partecipazione alla propria Vita Divina che ci comunica per amore.

Ne è un esempio il sublime discorso del “Pane di Vita” che San Giovanni ci trascrive nel suo capitolo sesto: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). E in seguito ci fa questa meravigliosa promessa: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).

Morte e resurrezione

Il cristiano sa quindi che la morte non solo non è la fine, ma al contrario è l’inizio della vera vita, la vita eterna.

In qualche modo, visto che attraverso i sacramenti godiamo della Vita Divina su questa terra, stiamo già vivendo la vita eterna. Il nostro corpo dovrà rendere il suo tributo alla madre terra, dalla quale siamo usciti, a causa del peccato, ma la Vita Divina della quale già godiamo è per definizione eterna com’è eterno Dio.

Portiamo nel nostro corpo la sentenza di morte dovuta al peccato, ma la nostra anima è già nell’eternità, e alla fine perfino questo corpo di peccato risusciterà per l’eternità. San Paolo (Rom 8,9-11) lo esprime magnificamente: “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”.

Lo stesso San Paolo, innamorato del Signore, si lamenta del corpo di peccato chiedendo di esserne liberato: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). “Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria” (Col 3,4).

Il cielo

Purtroppo siamo così carnali, così terreni, che ci aggrappiamo a questa vita. Dopo tutto, è l’unica cosa che conosciamo, l’unica cosa che abbiamo sperimentato.

Partendo dall’uso della ragione, impariamo a discernere le cose buone della vita e quelle cattive, il bello e il brutto, il piacevole e lo sgradevole. E lavoriamo sodo per ottenere dalla vita il meglio per noi. Tutti gli affanni dell’uomo sono motivati dal fatto di adattarci alla terra il meglio che possiamo.

Non possiamo negare che la vita possa offrirci cose splendide. Godere della bellezza del mondo prodigioso, aprire i sensi al cosmo, l’intelligenza ai segreti racchiusi dalla materia, imparare ad amare e ad essere amati, creare opere d’arte, finire bene un lavoro, vedere il frutto della nostra fatica, conoscere altre culture, leggere un bel libro…

Non è facile relativizzare tutto questo o sottrargli importanza. I nostri parenti e amici, i nostri possedimenti, i nostri progetti sono tutto ciò che abbiamo, quello per cui abbiamo lavorato per tutta la vita. Ci siamo spesi in questo, investendo tutte le nostre forze.

E per questo non pensiamo neanche all’altra vita. Né al Cielo né all’Inferno. Il Cielo non ci attira e l’Inferno non ci spaventa. Viviamo immersi nel tempo, come se fossimo immortali. Parlare di Cielo o Inferno può sembrare addirittura ridicolo, e tuttavia è – una cosa o l’altra – il nostro destino ineludibile!

Possiamo dire che tutte le gioie o tutte le pene di questa vita temporale non hanno tanta importanza. San Paolo, rapito in estasi per intravedere ciò che ci aspetta, non riesce a descrivere con parole umane la sua esperienza: “Sta scritto infatti: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9).

Di fronte all’effimero delle gioie o delle sofferenze di questa vita, lo stesso apostolo ci raccomanda nella lettera ai Colossesi (3, 1-2): “Cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”.

Il cammino e la meta

Questo modo di pensare può essere paragonato a un viaggio: per quanto possa essere splendido il paesaggio, non è questo che conta, ma la destinazione. Sarebbe sciocco desiderare che il viaggio non finisse mai e dimenticare che alla fine di questo ci aspettano, ad esempio, delle splendide vacanze in riva al mare.

Potrebbe esserci anche la possibilità di cambiare opinione decidendo di fermarci in un luogo più bello di quello pianificato in precedenza, ma nella vita questo non può accadere: andiamo inesorabilmente verso la morte, non possiamo fermare il tempo, non possiamo “cambiare i piani”. E se avanziamo fatalmente verso la fine del viaggio, è saggio concentrarci su ciò che ci può attendere.

Qualcuno potrebbe dire che pensare alle “cose di lassù” come ci consiglia l’apostolo va a scapito del progresso dell’umanità e dello sviluppo di tutte le possibilità dell’essere umano. Per questo Marx ha detto che la religione era l’oppio dei popoli, e non aveva torto studiando certe religioni, soprattutto orientali, nelle quali sembra che tutto lo sforzo umano si concentri nel fuggire dalla realtà quotidiana.

Il cristianesimo non si inserisce in questa posizione. La storia lo dimostra ampiamente, verificando come sia stato proprio nei Paesi cristiani che sono stati compiuti i più grandi passi per il benessere dell’essere umano.

Il pericolo non è tanto nel fatto di fuggire, ma al contrario nell’aggrapparsi alle cose temporali, perdendo di vista quelle eterne. L’autentico seguace di Gesù lavora per rendere questo mondo migliore, ma non perde di vista il fatto che è solo la via verso la felicità eterna e senza limiti che Dio ci promette.

Viviamo con i piedi ben piantati a terra, ma con l’anelito di ottenere, alla fine dei nostri giorni, la corona di gloria eterna.

Invecchiare è meraviglioso

L’istinto di conservazione e la mancanza di fede ci fanno temere con orrore l’irrimediabile invecchiamento. Abbiamo reso la gioventù un mito, e perderla viene ritenuto un dramma.

Fa male vedere persone mature e post-mature cercare di difendersi dalla calvizie, dalle rughe… Ovviamente non riescono a ingannare nessuno, e men che meno possono fermare il tempo.

Tutte le operazioni di chirurgia plastica a cui si sottopongono non preservano la bellezza giovanile né tolgono un unico giorno all’età che avanza. Tutti questi tentativi vani di bere alla fonte dell’eterna giovinezza non fanno altri che evidenziare il fatto che abbiamo perso il senso della vita e della morte.

L’età non solo ci fa dare la giusta importanza alle cose temporali (cosa che i giovani non hanno ancora imparato a fare), ma ci fa avvicinare sempre di più a Dio, nostro fine ultimo.

Il grande San Paolo ci scrive: “Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,16-18).

Non si tratta di rassegnarci mansuetamente all’inevitabile. Al contrario, è la lieta consapevolezza del fatto che siamo chiamati da Dio.

Le rughe sono i segni di questa chiamata gioiosa, e le malattie e gli acciacchi ci dicono lo stesso: la meta è ormai vicina. Presto vedremo Dio.

Il grande Sant’Ignazio di Antiochia, anziano e sulla via del martirio, avanza gioioso all’incontro con Dio e scrive ai romani: “Il mio amore è crocifisso e non resta più in me il fuoco dei desideri terreni; dentro di me sento solo la voce di un’acqua viva che mi parla e mi dice: ‘Vieni al Padre’. Non trovo più diletto nel cibo materiale né nei piaceri di questo mondo”.

Che meraviglia arrivare a comprendere che la morte è l’inizio della vita vera e che tutto questo non è stato altro che una prova, un cammino, un invito!

La liturgia dei defunti

La riforma liturgica implementata dopo il Concilio Vaticano II si è impegnata a sottolineare gli aspetti positivi del momento della morte. La prima cosa che richiama la nostra attenzione è l’abbandono degli ornamenti di colore nero nelle Messe dei defunti, perché il nero è il segno del dolore senza traccia di consolazione o di speranza.

Senza ignorare l’aspetto tragico della morte, il Rituale dei Sacramenti, nell’introduzione alle esequie, accentua la speranza del credente. Nonostante tutto, la comunità celebra la morte con speranza. Il credente muore fiducioso.

In mezzo all’enigma e alla tremenda realtà della morte, si celebra la fede nel Dio che salva.

Nel cuore della morte, la Chiesa proclama la sua speranza nella resurrezione e afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un destino felice. La morte corporale sarà vinta.

Nella celebrazione della morte, la Chiesa festeggia il mistero pasquale con il quale il defunto ha vissuto identificato, affermando così la speranza della vita ricevuta nel Battesimo, della comunione piena con Dio e con gli uomini onesti e giusti, e di conseguenza il possesso della beatitudine.

Con il realismo che caratterizza la Chiesa cattolica, tutta la liturgia dei defunti offre a Dio suffragi per i morti, sapendo che tutti, in misura maggiore o minore, abbiamo offeso Dio, ma con la piena fiducia nella infinita misericordia divina, che garantisce alla fine il godimento della beatitudine.

Per questo il libro dell’Apocalisse ci insegna che sono beati coloro che muoiono nel Signore.

Pregando per i nostri cari, ripetiamo: “L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua”. Riposo dalle lotte e dalle fatiche di questa vita; luce per sempre, senza ombra di morte, senza tenebre di angoscia, dubbi o ignoranza. La luce totale di contemplare la gloria di Dio in tutto il suo splendore, nella consumazione dell’amore perfetto ed eterno.

La morte è la compagna dell’amore, quella che apre la porta e ci permette di arrivare da Colui che amiamo.

San Gregorio Magno ci dice che “la vita ci è data per cercare Dio, la morte per trovarlo, l’eternità per possederlo”.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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