“Come si fa a parlare ai giovani?” – ho chiesto a don Vincent Nagle, californiano di san Francisco che vive a Milano dove è diventato sacerdote della Fraternità San Carlo dopo l’incontro con don Giussani. Mi aspettavo che mi facesse un bel discorso sulla pastorale, sul linguaggio, al limite sulla credibilità personale. E invece: “Una volta parlavo a un gruppo di studenti, in Sicilia, e nessuno mi ascoltava. Allora ho detto: il problema dell’educazione è che voi, ragazzi dovete morire. E i ragazzi hanno cominciato istantaneamente a prestarmi attenzione – ha risposto sorridendo. Secco, senza fronzoli o trovate retoriche. “E se dovete morire – ho chiesto a quei ragazzi – chi ve lo fa fare di faticare così tanto?”
“Il vostro cuore desidera un’avventura, vuole qualcosa di grande. Ma che cos’è un’avventura? E’ la medesima cosa di un incubo, solo che voi vivete di una speranza certa: voi sapete che la cosa può finire bene. Non siete voi a vincere. È lui che vince, ma voi potete stare con Lui nella battaglia. E di fronte a qualcuno che soffre l’unica proposta seria che possiate fargli è quella di mescolare il suo sangue a quello di Cristo”.
Insomma: morte, battaglia, martirio, ma con il nostro sangue unito a quello di Gesù. Non è che proponga un linguaggio esattamente da pastorale giovanile don Vincent Nagle. Eppure c’era così tanta gente che mi parlava bene di lui, che a un certo punto ho dovuto trovare il modo di conoscerlo. E avevano ragione: questo sacerdote profuma di Cristo. Oggi fa il cappellano in un ospedale, dove ogni giorno incontra i malati terminali, e veramente di fronte al dolore, alla malattia e alla morte c’è solo una cosa che possa consolare. Portare Cristo, perché Lui ha vinto la morte, e tutto il nostro essere, in ogni sua cellula, si ribella alla morte, alla possibilità di finire nel nulla. È per questo che nel nostro orizzonte culturale privo di Dio si cerca di oscurare la morte, perché l’idea senza di Lui è spaventosissima.
Quando il mio direttore mi ha chiesto di raccontare un gruppo di giovani che si stanno preparando alla GMG di Cracovia mi sono subito venuti in mente “i ragazzi di Benedetta” (cioè quelli che pregano insieme, con la mia amica Benedetta Frigerio), in particolare Quellocongliocchi, cioè Paolo, un ragazzo con degli occhi così vivi e belli e profondi che ti si stampano nel cuore (a scanso di equivoci: potrebbe essere mio figlio, ed è esattamente con occhi di madre che mi sono appassionata a lui). Era tempo che cercavo una scusa per intervistarli, e raccontarli per il programma che faccio per RAI1 è stato bellissimo (l’intervista andrà in onda sabato 30 alle 11). Se devo parlare di GMG, beh, loro sono i giovani più giovani che conosco, se la gioventù è quello stato in cui il cuore vuole consegnarsi tutto e vuole qualcosa di grande e totale, e non è disposto a lasciare nulla, se non per un di più.
Poi, quando ero a Milano per incontrarli, ho ricollegato (sono lenta di riflessi): don Vincent è il loro prete, e ho deciso che dovevo conoscerlo meglio. Sulle frontiere dell’umano, un prete tra i malati, è il libro che ha scritto per Rubbettino. Non mi capitava da tempo di non riuscire a smettere di leggere un libro, e invece con questo è così. Il fatto è che è un libro che sa di verità. Non che altri mentano, ma questo va all’essenziale, tagliando corto, andando all’essenziale (sarà perché l’autore è americano?). In cosa si compie la domanda che è dentro ogni uomo; come possiamo rispondere a un uomo che muore; come possiamo rispondere alla nostra stessa sofferenza, che senso ha, chi ci fa veramente compagnia mentre la viviamo e siamo soli al mondo, perché nella solitudine non ci raggiunge nessuno; perché rimanere nella fatica quando possiamo scappare; come rimanerci non con rassegnazione, ma entrandoci regalmente; cosa può fare la grazia di Dio nella nostra vita.
Non ci sono parole consolatorie. “Hai ragione a tremare – scrive don Vincent – hai ragione a tremare davanti a questa vastità che non puoi in alcun modo controllare. Ti ha svelato la tua nullità e fai bene ad averne paura. Ma il Padre vostro che è nei cieli non si è fermato a questo. Quando le vostre ginocchia tremano e vi cedono le gambe, Egli ha già steso la sua mano. Da questo vortice caotico e tempestoso Egli ha proteso la sua mano di carne e di sangue”.
Di questo parla il suo libro, di questo vogliamo sentir parlare noi quando siamo di fronte al nostro dolore: non di una teoria, ma di qualcuno che in quel punto, in quel momento, ci tende la sua mani, disposto a stare con noi nella fatica. Compagnia, carne, sangue. Niente teorie. Robe molto concrete.