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Sacerdoti veri, non omologati funzionari replicanti del Sacro

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Pixabay.com/Public Domain/ © Senlay

Silvia Lucchetti - Aleteia - pubblicato il 22/04/16

50 ritratti di preti dalla diversa umanità arricchita dal sacerdozio al servizio di Cristo

Preti. Tutti i colori del Clero (e non c’è il grigio)” (San Paolo Edizioni) di don Diego Goso è un libro composto da cinquantadescrizioni, profonde e al contempo leggere, di sacerdoti che hanno contribuito ad alimentare il desiderio dell’autore di rispondere alla sua vocazione di prete. L’idea di tracciare questi cinquanta ritratti nasce a don Diego una mattina, mentre sta gustando in un bar vicino piazza San Pietro una colazione “all’a­mericana abbondante” e vede avvicinarsi un gruppo di “giovani studenti di qualche collegio”. A colpirlo è la loro somiglianza, la mimica e la gestualità identica, compreso il tono di voce e il modo di ridere, e ricorda, perché anche lui corse questo rischio, come sia facile e allettante negli anni della formazione acquisire modi di fare pre-impostati, e “aggregarsi alle correnti”. I cinquantasacerdoti protagonisti del libro hanno salvato don Diego dal diventare un prete stereotipato, lo hanno, ognuno con il suo carattere ed esempio, invogliato a restare se stesso, arricchito dallo Spirito del Signore. Preti non omologati, tantomeno perfetti ma “ciascuno a suo modo… con il cuore comunque orientato verso il Regno”.

«(…) ho pensato: voglio descrivere un altro “esercito” di preti. 50, almeno. Solo alcuni tra quelli che ho cono­sciuto nella mia vita e che hanno seminato in me il de­siderio di rispondere alla vocazione del Signore. A dif­ferenza dei precedenti, questi vantano in ogni modo la loro diversità, ognuno con una vera personalità, uomini maturi che sono una benedizione per le loro comunità. Figli del proprio tempo, con sensibilità diverse, che creano un arcobaleno di speranza e fedeltà alle promesse sacerdotali. Non un esercito di funzionari del sacro, ma una fra­ternità di pastori del gregge. Ciascuno di loro ha saputo caratterizzare un tratto del mistero del sacerdozio. Ciascuno di loro è una scintilla dell’infinita ricchez­za di colore e fantasia che può essere il ministero a servizio del Regno di Dio. Ciascuno di loro è un raggio di sole dell’Eterno Sa­cerdote, un Sole che nessuno di noi può pretendere di ingabbiare nei propri schemi e modi di vita. Ciascuno di loro è un rifiuto netto al carrierismo e all’uniformità sterile nella vita della Chiesa. Preti: tutti diversi e unici, ma tutti di Cristo».

E così l’autore comincia a raccontare “i suoi sacerdoti”, e le descrizioni non hanno tratti melensi e neppure troppo seriosi, anzi, in esse si mescolano ironia, ammirazione, affetto e ricordi che arricchiscono il testo con una pennellata di malinconia e tenerezza. Don Diego non chiama per nome nessuno di questi protagonisti, ad alcuni al massimo affibbia con garbo e amicizia un soprannome, che riesce subito ad attirare l’attenzione e la simpatia del lettore.

“Don Senza Lancette” è il primo della lista, un uomo che dimentica l’orologio per ascoltare davvero la persona che ha di fronte e che con fiducia gli apre il suo cuore:

«Una cosa davvero brutta quando apri la tua anima a qualcuno, è vedere che la persona a cui ne stai donando un pezzo con fiducia e fatica sta invece guardando di sfuggita, ma con precisa regolarità, un punto dietro le tue spalle. Sai che lì c’è un orologio. Comprendi che sta soppesando, o peggio sopportan­do, il tempo che concede. Ammetto che è capitato anche a me. (…) Poi ho conosciuto don Senza Lancette. Non l’ho mai visto dire di no a un incontro. Non l’ho mai sentito divorato dal tempo. Vive l’attimo con tutti gli onori e le attenzioni che esso merita.  Non è schiavo dell’agenda, delle proprie priorità che vogliono superare quelle delle persone che incontrano. (…) Non ha scadenze da rispettare: quando un’anima lo avvicina, lì c’è tutto quello che gli serve e ciò che egli stesso vuole in quel momento. Una bella immagine di parroco: nessuno può dirgli: «Non la trovo mai», per­ché… c’è sempre. Vive per il suo ministero. Il suo Signore».

“Il mio primo parroco” è il sacerdote dell’infanzia, quello che ha accompagnato l’autore alla Prima Comunione. “Persona affabile e riservata insieme”, con il quale andava a fare il giro delle case per le benedizioni quando faceva il chierichetto.

«(…) Anni dopo, vivendo ormai altrove, leggo la notizia che l’hanno fatto vescovo di una diocesi vicina, non semplice, per la forte presenza di protestanti. Sono an­dato a trovarlo: suono all’episcopio e mi apre diretta­mente lui. Mi dicono che fa sempre così, nonostante una segreteria ce l’abbia. Non importa: «La gente – mi dice – suona per incontrare il vescovo, non il suo segretario». Facciamo pranzo insieme e mi serve, alzandosi ogni volta che occorre. Si ricorda tutto della mia famiglia. (…) Lo ricordo vestito con semplice eleganza da prete: ha mantenuto lo stesso sarto anche da vescovo, se non per la croce pettorale che spunta sotto la giacca, e l’anello. Gli chiedo se è difficile la sua missione: mi risponde che finché si ha voglia di dialogare, la strada è sempre libera, anche se in salita. (…) Quello che lo preoccupa sono le vocazioni azzerate: gli farebbe comodo qualche prete giovane in più, con le valli che hanno diverse parrocchie vuote e i suoi parro­ci anziani che fanno le capriole per dire messa ovunque. Mi confida che spesso va lui in persona a sostituire qualche prete ammalato. E se può, fa ancora il giro per la benedizione delle case».

E poi il prete dell’adolescenza, un uomo ricco di entusiasmo, tenacia e profonda fede, che per portare al mare tutti i ragazzi dell’oratorio affittò un treno…

«Con lui ho passato gli anni, per me impossibili, dell’a­dolescenza. Ed è stato la mia salvezza. Quando penso alla parola “oratorio” lui è l’immagi­ne più importante, nei miei ricordi.  Ho amato il suo saper essere leader; l’andarci giù deciso, con le ingiustizie dei bulli; il saper proporre, rendendo avvincente ogni cosa. Più di tutto, amavo trovare la porta del suo ufficio sem­pre aperta quando avevo bisogno: non è mai stato una spalla su cui piangere, ma sempre una ricarica per ripartire. Un giorno ha chiamato noi animatori e ci ha detto che i ragazzi dovevamo conquistarli tutti: era arrivato ad avere un oratorio con oltre mille presenze, ma non gli bastava ancora. Per portarci al mare doveva affittare un treno, perché i pullman non erano sufficienti. (…)Il lunedì pomeriggio il suo universo vulcanico si fer­mava, per un momento in chiesa con noi: si pregava in silenzio e quiete, non erano ammessi disturbi di alcun tipo. Poi si ripartiva: il suo motto, con cui tante volte ci ha caricato, è che c’era un paese da cambiare. Allora erano parole credibili, non le usavano ancora i politici».

“Il mio Panoramix” è la figura di un sacerdote eremita, il quale, nonostante il successo già raggiunto con gli ottimi risultati accademici che poteva incrementare ulteriormente, come auspicato da molti, ha trovato finalmente la strada della vera gioia: la felicità di stare solo con Cristo.

«Quando l’ho conosciuto era un grande animatore dell’oratorio. Io un ragazzetto. Quando l’ho rivisto era un giovane prete appena or­dinato. Io un giovanotto che cominciava le superiori. Quando l’ho rivisto era un professore del seminario, Sacra Scrittura. Io un allievo della medesima istituzione. Quando l’ho rivisto era diventato un eremita. Io ero il suo parroco, appena nominato, perché il suo rifugio per vivere con Dio è nel territorio di una delle mie parrocchie. (…) Lui giovane e promettente professore (…) Avrei voluto esserci, quando ha detto che per lui la Scrittura, tanto amata e studiata, era diventata una sere­na ossessione a cui dedicare ogni attimo come «telefo­no per parlare con Dio». (…) Vado a trovarlo ogni tanto, lungo la strada che porta al suo eremo in mezzo ai boschi, per quel sentiero ver­so il santuario più amato dagli abitanti della valle che si trova poco più sopra. (…) Da animatore era bravo. Da giovane prete lo ricordo impegnato. Soddisfatto di sé come insegnante pluridecorato. Da eremita lo vedo felice come non mai. E sento che il mio ministero frenetico è accompagna­to e protetto dalla sua preghiera».

I cinquanta preti raccontati nel libro, della cui ricchezza e varietà individuale è stato offerto uno sguardo panoramico prendendo come esempio le quattro personalità presentate, sono “uomini veri”, caratteristica secondo l’autore irrinunciabile “per una vita sacerdotale autentica”. Perché se la vocazione e la conversione annullanociò che siamo, cioè come Dio ci ha pensato” e trasformano i sacerdoti in“funzionari del Sacro riprodotto in serie” allora – scrive don Diego nella conclusione – “più che di Grazia si dovrebbe parlare di dis… grazia”.

«I cinquanta preti che ho raccontato in queste pagi­ne hanno Cristo che vive in loro: e, se sono stato ca­pace di mostrarvelo, risultano arricchiti, amplificati, perfezionati dal Signore stesso nella loro particolare singolarità».

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