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“Born to Be Blue”: il jazz, l’eroina e la ricerca della felicità

Matthew Becklo - pubblicato il 19/04/16

La storia del trombettista Chet Baker e della sua lotta con la dipendenza

Per Ethan Hawke è l’interpretazione della sua carriera, quella in cui veste i panni del trombettista eroinomane Chet Baker nel nuovo film Born to Be Blue. Robert Burdreau racconta l’ascesa e la caduta (e poi, di nuovo, un’altra ascesa e un’altra caduta) del “James Dean del jazz”, mostrando (a metà tra l’autentico e l’immaginario) come sia stato guidato dalle inquietudini, nonostante l’aria accattivante. Born to Be Blue non punta a toccare i livelli di drammaticità che hanno raggiunto altri film sui musicisti con “la scimmia sulla schiena”. Burdreau ci dà invece un calmo interludio di sobrietà nella vita di Baker, un periodo letteralmente incastonato tra gli anni spesi a uscire e rientrare di galera.

Baker è stato anche un uomo che ha parlato con orgoglio delle proprie dipendenze: le donne, la musica e soprattutto l’eroina. “Mi rende felice”, sussurra alla sua co-star nella sua ‘biografia dentro la biografia’. “Mi piace farmi”. Ma quell’amore, quel piccolo Eden che ha costruito per se stesso, viene strappato via quando un’aggressione per motivi di droga finisce per rompergli alcuni denti e rovinargli l’imboccatura, costringendolo a imparare nuovamente a suonare la tromba, da capo.

(ALLERTA SPOILER)

L’immagine di apertura di Baker in una cella vuota, faccia a faccia con una tarantola uscita fuori dalla sua tribe, diventa un simbolo potente del suo viaggio. Inizia un programma di recupero fatto di metadone, in cui fa dei piccoli passi alla volta per reclamare indietro il suo talento. Ma l’ardore del “West Coast cool” è smorzato da un senso di fallimento e di distacco che ha a che fare con la sua identità tanto quanto ne ha con la sua dipendenza. Non solo Baker non sa cosa fare di se stesso senza eroina, ma non conosce neppure chi lui sia.

Senza soldi né concerti in vista, e con soltanto l’amore disinteressato della sua co-star Jane, Baker riesce a scalare – lentamente ma con decisione – la vetta che lo porta nei circoli elitari della musica jazz. “Ho lavorato con musicisti drogati per 20 anni”, commenta il suo agente di custodia, “e non ho mai visto nessuno lavorare così duramente”. Il vecchio produttore di Baker, Dick, riesce finalmente a organizzare uno spettacolo privato, rivolto a chi bazzica l’ambiente jazz, per vedere il nuovo Chet Baker — un’entusiasmante scena in cui Hawke si cimenta in un’interpretazione di “My Funny Valentine”. È un successo strepitoso; Baker è tornato, ed è completamente pulito.

Ma quello spettacolo genera poi un secondo spettacolo, che lo spedisce dritto nel divismo più spinto. Là, nel backstage di Birdland, Baker si trova improvvisamente senza metadone, senza la sua Jane e senza più la convinzione di potercela fare senza il suo vecchio amore, che lo fissa dal tavolo del suo camerino.

È una scena ricca, sia dal punto di vista psicologico che spirituale. Da un lato c’è l’artista insicuro, convinto di non poter fare quel necessario salto di qualità “dal buono all’eccellente”. Non senza l’eroina. “Non penso che potrei suonare altrimenti”, sussurra.

Dick, che nel frattempo è già volato in cerca del suo amico metadone, ricorda a Baker che negli ultimi mesi ha suonato divinamente. Ma è troppo tardi, perché, dall’altro lato, ora è la dipendenza ad essersi impossessato di Baker, parlando attraverso di lui. Con le lacrime agli occhi, Baker fa una scelta devastante, come se avesse già perso la battaglia interiore e potesse giustificarsi solo con se stesso.

Ma se invece avesse ragione? Se fosse l’eroina ad attivare la sua creatività e a portarlo in quella sublime dimensione in cui riesce a “toccare il cuore di ogni singola nota”?

Una risposta inaspettata arriva sotto forma di citazione da 1 Corinzi: “Ma se anche cantassi nella lingua degli angeli”, gli dice Dick, “ma non avessi carità, saresti come un cembalo che tintinna”. In altre parole, anche se Baker prendesse l’eroina e sostenesse uno spettacolo perfetto, tutto ciò non sarebbe di alcuna importanza, perché avrà conquistato il mondo intero distruggendo, nel frattempo, se stesso.

Il passaggio della Scrittura, che viene spesso letto durante i matrimoni, è colmo di una devastante ironia mentre Baker sale sul palco per fare una maldestra interpretazione di “I’ve Never Been in Love Before”. Un finale commovente per l’avvincente storia di un uomo alla ricerca di se stesso – o, più precisamente, della sua felicità – nel bel mezzo dell’epoca jazz.

Ma questa nota spirituale parla anche, e in modo diretto, a una nazione nelle grinfie dell’eroina e di antidolorifici da ricetta. Ci ricorda che la dipendenza può diventare davvero molto resiliente e potente, e che può portare il suo ospite fino alle più incredibili profondità dell’autoinganno. Che soltanto un rimedio spirituale – soltanto l’impatto con la divina grazia e la nostra cooperazione attiva – può distruggere una volta per tutte.

Matthew Beckloè un marito e padre, filosofo amatoriale e commentatore culturale di Aleteia e Word on Fire. I suoi scritti sono apparsi su First Things, The Dish e Real Clear Religion.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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