A quattro anni dalla tragica scomparsa del giovane calciatore, Giuseppe Vailati ne tratteggia la straordinaria semplicità Quattro anni fa, il 14 aprile 2012, moriva per un arresto cardiaco il venticinquenne centrocampista del Livorno Piermario Morosini, durante una partita di calcio. Uno dei suoi amici d’infanzia, Giuseppe Vailati lo ricorda in un libro – “Mario gioca semplice! Io e Piermario Morosini” (San Paolo edizioni) – nel quale narra le vicende della sua vita intrecciandole a quelle del calciatore scomparso. Un’autobiografia che ruota intorno alla figura dell’atleta e racconta i suoi successi calcistici, i drammi familiari e fa emergere la disarmante umiltà, la grande fede e l’amore per la vita che lo caratterizzavano.
Nella prefazione Riccardo Montolivo ricorda con queste parole il collega e amico:
«Ho avuto la fortuna di conoscere Piermario Morosini quando eravamo molto piccoli, nel settore giovanile. Avevamo dodici, tredici anni. Era un anno più giovane di noi ma, poiché aveva un talento incredibile, decisero di aggregarlo alla squadra dell’annata ’85. (…)Mario era un ragazzo fantastico, sempre disponibile, sempre sorridente, una persona che trasmetteva valori positivi: mai una parola o un comportamento fuori posto. Proprio per questo tutti noi gli volevamo un gran bene. Già da ragazzo era molto maturo, probabilmente perché aveva una situazione familiare difficile che lo aveva costretto a crescere più in fretta e per questo lo ammiravamo molto. Inoltre la sua grande professionalità, dentro e fuori dal campo, era davvero un esempio per tutti».
La narrazione comincia quando Beppe e Mario, appassionati di calcio fin da piccoli ed entrambi bergamaschi di Monterosso, si ritrovano per un anno insieme nella stessa squadra, ma poi Beppe inizia a giocare nelle giovanili dell’Alzano Virescit e Mario nella prestigiosa Atalanta.
«Tra tutti i ragazzini ce n’era uno un po’ speciale: era piccolo e moro, un po’ più bravo degli altri, nonostante fisicamente fosse mingherlino».
Un ragazzino “un po’ speciale”, ultimo di tre figli, con due fratelli maggiori entrambi diversamente abili. Un giovane di talento, dal carattere buono e riservato. Mario per Beppe è un modello, un mito, un vero “figo” per cui prova ammirazione e un pizzico di invidia. Negli anni della pubertà guarda a quel ragazzo serio, completamente dedito al calcio e alla parrocchia, desiderando di diventare come lui, che invece è irrequieto, ribelle e prova una profonda solitudine che maschera e sublima con alcune “ragazzate” tipiche dell’adolescenza, che dopo una fugace sensazione di benessere lo fanno ripiombare nell’insoddisfazione. Mentre la sua carriera sportiva sfuma, Beppe ammira da lontano l’umiltà e la bravura del grande campione di calcio, “uno di loro”, di Monterosso, che c’è l’ha fatta.
«Solitamente si pensa che i calciatori siano persone appariscenti e alla moda, al centro dell’attenzione, per vanità o per fama: Mario non era così, soprattutto per quel che riguardava la sua vita privata (…)riservato com’era, non andava certo in giro a raccontare i fatti suoi. Conoscevamo in molti suo papà Aldo, l’ometto paffuto e baffuto che andava sempre alle sue partite (…)Sua moglie si chiamava Camilla, una donna dolce che nei tratti e nei gesti appariva già vecchia, probabilmente perché provata dalla vita. Era accompagnata da quell’umiltà di cui solo le donne autentiche sono capaci. (…)Mario era il loro terzo figlio (…)Prima di lui erano nati Maria Carla e Francesco, entrambi diversamente abili. Franci non aveva certo bisogno di presentazioni: era autonomo e girava per il quartiere fin da quando tiravamo i primi calci al pallone. Veniva spesso in oratorio e stava con noi ragazzini (….)Inoltre era un appassionato sostenitore del fratello e con papà Aldo andava sempre alle sue partite, portando con sé l’immancabile bandierina».
Le vite dei due giovani prendono strade diverse, Piermario prosegue la sua brillante carriera calcistica, diventa capitano della primavera dell’Atalanta e una giovane promessa della nazionale. Ma se da una parte sembra tutto scorrere a gonfie vele, dall’altra è davvero un momento tragico. Perde in poco tempo prima la madre, poi il padre e infine il fratello, morto suicida. I lutti che colpiscono Mario non lasciano indifferenti i ragazzi dell’oratorio e neppure Beppe e i suoi amici “spacconi”.
Dopo il diploma liceale, Beppe si laurea in filosofia ed entra in seminario per comprendere la sua vocazione che poi, grazie a un pellegrinaggio alla tomba di San Giacomo di Compostela nell’ultimo anno di seminario, scoprirà essere il matrimonio. Durante un campo estivo Mario va a trovarlo, e i due amici condividono un momento di profonda comunione e confidenza durante una passeggiata.
«(…)Mi aprì il suo cuore e, non senza pudore e discrezione, mi raccontò di sé. (…)mi disse, «io gioco a calcio quasi tutti i giorni e questo è bellissimo. È la mia passione e anche il mio lavoro. (…)Ma la cosa che più mi pesa sono i tempi vuoti, soprattutto la mattina quando non mi alleno». (…)Questo non mi rende felice! È come se mi mancasse qualcosa, mi capisci?». (…)«Il problema è che anche io non capisco bene cos’ho». (…)Ma cos’è questo vuoto? Cosa mi manca?», chiese Mario incuriosito e cambiando sguardo, intuendo che quella era la questione decisiva. Gli risposi con dolcezza quasi paterna: «Mario, lo sai cosa c’è! Sei cresciuto in oratorio, hai tanti amici e hai passato quello che hai passato. Non devo dirti io cosa, o meglio, chi stai cercando…». A queste parole, sorrise con profonda serietà. Incrociando il mio sguardo, insieme allusivo e giocoso, comprese quello che, in fondo, aveva capito già da tempo. (…)Continuammo la nostra passeggiata sotto il sole (…)Giunti al cancello (…)mi lanciai coraggiosamente in un’affermazione molto delicata(…) «E comunque Mario, guarda che ho visto che quando chiudi il braccio, il tatuaggio con la F di Franci va a toccare quello della croce che hai sul costato!». Mario, spiazzato, sorrise».
Il 14 aprile 2012 Piermario Morosini si accascia al suolo durante la partita Pescara – Livorno e muore poco dopo. È una tragedia per tutti, il mondo del calcio è sconvolto. Beppe e gli amici dell’oratorio di Monterosso compreso don Ciano, profondamente legato al ragazzo da un rapporto paterno, vivono un dolore grandissimo. Nella disperazione del lutto Beppe ricorda una comunione incredibile, un funerale bellissimo, con una partecipazione numerosa e commossa, “un’atmosfera magica, possibile solo nella sofferenza più profonda”, che gli fa pensare: “nemmeno la morte può spegnere la gioia”.
“(…)L’omelia che pronunciò don Ciano fu davvero toccante: (…)«Dolce amico mio, timido amico mio. Ripartiamo da te e dalla tua bellissima vita in mezzo a noi, per la quale siamo qui a dirti grazie… Ma saresti tu il primo a dirci che questo grazie va girato alla gente che ti ha cresciuto… Tu non sei un prodigio strano… Sei venuto da una terra semplice dove la santità non è l’eccezionale, ma la santità è il normale, perché la fede è una roba da uomini normali. (…) E un giorno, quando io gli ho chiesto: “Mario, ma tu, di fronte alla tua vita?”, “Io ho più grazie da dire che recriminazioni da fare!” »”.
Dal libro traspare con tutta evidenza come la grandezza di Piermario Morosini trascenda nettamente il talento calcistico, per illuminarsi della sua straordinaria personalità caratterizzata dalla semplicità di chi nonostante il successo raggiunto non rinnega le sue radici – rimanendo legato alla sua terra, alla spiritualità ereditata dalla famiglia e coltivata in parrocchia, agli amici di sempre – e vive con umiltà e gratitudine l’esistenza nonostante i numerosi drammi personali patiti.