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L’alter ego di mio figlio

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©Ollyy/Shutterstock

Rebecca Frech - pubblicato il 05/04/16

È stata la pornografia? O forse la droga? Cos'è che ci ha fatto perdere nostro figlio, immerso nel suo mondo isolato?

Quando nostro figlio di 16 anni si è ritirato nella sua camera, appena dopo cena, rinchiudendosi nella totale oscurità con la luce del suo computer come unica compagnia, mio marito ha scosso la testa chiedendosi: “Pornografia?”

Quando i suoi voti sono scesi e ha iniziato a non fare i compiti e a snobbare i suoi amici, ho guardato mio marito e gli ho detto: “Sono forse le droghe?”

Abbiamo perquisito la sua stanza e analizzato la cronologia del suo computer: l’unica cosa che abbiamo trovato è stato un panino mezzo mangiato sotto al letto (pensiamo sia tacchino), l’unica cosa che abbiamo scoperto è stato che ascoltava molto il cantautore Weird Al su YouTube.

Gli abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. Ha scrollato le spalle guardando il pavimento e ha mormorato: “Niente…”

Poche settimane dopo ha iniziato a sgattaiolare dalla porta d’ingresso per andare al torrente in fondo alla strada. Lo abbiamo quindi seguito per vedere cosa stesse succedendo, e lo abbiamo visto accovacciarsi nella boscaglia e camminare furtivamente di albero in albero. Suo padre ha scosso la testa, facendo segno di andare via, e ha detto: “Tuo figlio è proprio fuori di testa”.

Non abbiamo più visto i suoi amici aggirarsi intorno a casa nostra. I suoi professori ci hanno mandato continuamente e-mail per avvisarci dei compiti non fatti. Gli esami di algebra erano andati malissimo e lui stava per essere bocciato in chimica. Il cammino intrapreso lo avrebbe portato verso la bocciatura e verso la delinquenza giovanile. Io e mio marito brancolavamo nel buio, senza alcuna soluzione al mistero di cosa fosse successo a nostro figlio.

La scorsa notte c’è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ero in cucina, con in mano il risultato disastroso dell’ultimo compito in classe. Gliene ho dette quattro. Ho permesso alla mia frustrazione di avere la meglio e gliel’ho sbattuta in faccia. Lui è rimasto in piedi di fronte a me, con la testa chinata, mordendosi le labbra e scaricando tutto il peso del corpo su una sola gamba.

“Sei un buono a nulla!”, ho urlato. “Cosa diamine hai da fare di più importante che provare a superare il secondo anno di liceo?”

Senza guardarmi neanche, ha sussurrato: “Ho scritto un libro”.

L’ho guardato, interdetta. “Cosa?”

“Ho scritto un libro. Lo scorso autunno”.

L’ho guardato intensamente. La rabbia ha lasciato il posto alla più completa confusione. “Un libro? Quanto lungo?”

“Circa 60mila parole”.

“Che tipo di libro? Qualcuno l’ha visto? Perché ne sento parlare solo ora?” le domande uscivano da sole da dentro di me.

“Uhm… è un un romanzo fantasy medioevale, qualcosa del genere”.

“L’hai mostrato a qualcuno? Posso leggerlo?”

“Ho fatto un’autopubblicazione, mamma. Intendi nel formato e-book? È stato scaricato quasi 1000 volte. Ai lettori sembra piacere. E a loro piace anche il sequel”.

“C’è un libro e un sequel? Quando scrivi tutto questo?”

“Di notte. Spengo le luci così non ho distrazioni, e scrivo. Ho detto ai miei amici che devono essere pazienti. Sarò di nuovo con loro tra pochi mesi”.

Ho continuato a tenere i miei occhi sull’uomo-bambino di fronte a me, mentre I pezzi del puzzle hanno iniziato a ricomporsi. Non si drogava, né aveva istinti suicidi. Non stava marinando la scuola; stava cedendo al desiderio lacerante di mettere le parole su carta. È una dipendenza, un bisogno essenziale. Lo conosco molto bene e non posso credere che non l’ho riconosciuto.

Non è un delinquente antisociale, è il bambino di sua madre. È uno scrittore, che Dio lo aiuti.

L’ho avvolto tra le mie braccia e gli ho detto: “Tre cose: la cosa del libro è bella, ma devi comunque essere promosso in algebra”.

Ha sospirato “okay” sul mio collo. “Cos’altro?”

“Devo leggerlo. Tuo padre ed io paghiamo per internet, dobbiamo sapere per cosa lo usi”.

“E la terza cosa?”

“Cosa stavi facendo nella boscaglia vicino al torrente?”

“Immaginavo la coreografia per le scene di guerra”.

“Certo”.

L’ho iscritto a un corso estivo di scrittura e gli ho detto che dopo aver finito il liceo avrebbe potuto prendersi un anno per dedicarsi interamente al suo libro, dato che l’università non è obbligatoria per tutti. In questo esatto momento mi trovo circa a metà del suo primo libro. È divertente. E bello. E davvero molto divertente. A soli 16 anni, è già uno scrittore migliore di quanto io possa mai sperare di essere.

E deve ancora superare gli esami di algebra.

Abbiamo assunto un tutore.

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Rebecca Frech e suo figlio

Rebecca Frechha un blog su Shoved to Them.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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