Ecco dove il protagonista di "Come saltano i pesci" trova lo slancio per vivere con leggerezza e la forza di dire anche dei no, come al nudo in scena
di Laura Baldaracchi
Cascata di riccioli castani, barba incolta, occhi da cerbiatto. Simone Riccioni è un attore ventisettenne di grandi speranze, con una carriera ben avviata. Ma basta scavare dietro il suo sguardo luminoso per cogliere un’altra bellezza, oltre a quella esteriore. Conosciuto soprattutto per alcuni spot pubblicitari e dal 31 marzo nelle sale con il film Come saltano i pesci, in cui è il protagonista, questo ragazzo marchigiano ha una intensa storia di fede da raccontare. Primogenito di tre fratelli, «sono nato in Africa, precisamente a Hoima, nel cuore dell’Uganda allora in guerra, perché mio padre Gianrenato, anestesista rianimatore, e mia madre Maria Letizia, professoressa di matematica, avevano deciso di andare come volontari laici in una missione aperta dall’associazione Avsi», riferisce.
L’INFANZIA IN AFRICA
Di quei primi 7 anni della sua vita ricorda tutto: «Colori, profumi, animali, ma soprattutto il senso di condivisione e di appartenenza al gruppo. Lì quello che è tuo è anche mio. Qualche esempio? Il mio pallone da calcio era di tutti. Ho visto una famiglia che per mangiare quel giorno aveva solo una matoka, un tubero lungo circa 30 centimetri, e l’ha spaccata a metà per darla a un’altra famiglia che non aveva nulla. In un posto dove non hai niente, la gente si fa forza a vicenda e, se vuoi fare qualcosa, devi farla insieme. In Italia ho fatto fatica a trovare quel senso di condivisione: al parco ho inforcato una bicicletta che non era mia e il bambino mio coetaneo, legittimo proprietario, mi ha dato uno spintone per farmi capire come stavano le cose. Ma questo scontro alla fine è stato bello, perché mi ha insegnato che i rapporti vanno coltivati e non bisogna dare nulla per scontato». Ricordi indelebili dell’infanzia trascorsa in parte a Corridonia, provincia di Macerata ma arcidiocesi di Fermo, dalla seconda elementare in poi. «I miei hanno deciso di rientrare perché i nonni stavano diventando anziani e avevano bisogno di aiuto, altrimenti saremmo rimasti in Uganda», spiega.
Nel Belpaese Simone – un concentrato di energia ed entusiasmo fin da piccolo – si trova ad affrontare la quotidianità in quattro mura di un appartamento in cui si sente soffocare, rispetto agli spazi aperti che ha lasciato, e anche una discriminazione al contrario: «In classe all’inizio mi chiamavano negro, scimmia, Dumbo Jumbo, perché venivo dall’Africa. In Uganda, invece, mi appellavano “musungu”, uomo bianco, in lingua acholi, con l’accezione negativa di sfruttatore e usurpatore. Gli stereotipi ci sono sempre e un bambino, quando si trova davanti a qualcosa di diverso, si spaventa. Pian piano i miei compagni hanno capito che ero come loro, solo che venivo da un continente diverso», commenta.
A SCUOLA DAI SALESIANI
Per il ragazzino argomentare a voce sulle proprie scelte è stato sempre difficile, perché è cresciuto con l’educazione della testimonianza, del vedere: «I miei genitori mi hanno trasmesso la fede senza spiegarmi a parole perché stavamo in Africa: era normale esserci. Gli ugandesi mi hanno testimoniato con i fatti la loro libertà e felicità. A 4 anni e mezzo, nel febbraio del ’93, Giovanni Paolo II in visita in Uganda mi ha abbracciato e baciato senza dire nulla: me lo ricordo ancora. Prima che i miei partissero, in piazza San Pietro aveva consegnato loro la croce missionaria».