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Il Racconto d’Inverno: la gelida morsa della contrizione e il dono di sciogliere la grazia

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Trinity Hall

Alexi Sargeant - pubblicato il 25/03/16

Cosa ci insegna Shakespeare sulla contrizione?

C’è un genere di opera teatrale estremamente adatto a un periodo di penitenza? Volendo andare oltre le rappresentazioni del Mistero per prendere in considerazione candidati meno ovvi, proporrei le ultime opere di Shakespeare. Sono quelle dell’inversione di rotta, in cui i personaggi sono costantemente dei naufraghi ma poi emergono come dal Battesimo. Le commedie finiscono con il matrimonio, le tragedie con la morte. I romanzi tendono a includere entrambi, ma finiscono con una resurrezione. Il romanzo ci mostra una famiglia miracolosamente riunita dopo una grande sofferenza, come la Pasqua.

Una di queste opere si concentra su un viaggio di pentimento, un viaggio che mostra come l’orrore per il peccato sia solo metà della storia, perché si richiede anche di risvegliare la propria fede.

Di recente ho avuto la possibilità di vedere la produzione di Kenneth Branagh de Il Racconto d’Inverno. È un’opera in cui una delle scene più famose è quella finale, in cui la statua di una regina morta prende vita per riconciliarsi con il marito pentito. Ho sentito varie persone chiedersi se Leonte, il re, si sia “guadagnato” la riunificazione con Ermione, la moglie fedele, sospettata ingiustamente e a lungo ritenuta morta.

La risposta è ovvia: no. I suoi crimini sono troppo grandi, la sua penitenza troppo esigua. Il mondo di Shakespeare è troppo cristiano per mostrare un uomo che “paga pienamente” per il suo pentimento. L’opera è una lezione di grazia – e dell’uso e dell’abuso della contrizione.

La nostra vita cristiana ci invita a una riflessione regolare, e quella riflessione spesso rivela quanto siano brutti i nostri peccati. Anche nelle nostre discipline quaresimali spesso non raggiungiamo l’obiettivo. Leonte ci mostra in modo drammatico quello che può fare il peccato: per via di una gelosia folle, si trasforma in un tiranno assassino che distrugge la propria famiglia ed è blasfemo nei confronti delle divinità. La maggior parte di noi non ha il potere autocratico di rendere i propri peccati molto pericolosi, ma indulgiamo ancora in pensieri malati e facciamo del male a chi ci è più vicino. Come Leonte che respinge l’avvertimento di Apollo (“Non c’è alcuna verità nell’oracolo!”), anche noi siamo pronti a non tener conto della parola di Dio quando confligge con qualcosa a cui tiene il nostro cuore o la nostra mente. E così feriamo il nostro rapporto con gli altri e con Colui che ci ha creati.

Quando diventiamo consapevoli del male che abbiamo fatto, dovremmo detestarlo. La contrizione è questa. Il problema è che Leonte diventa ossessionato dalla contrizione come lo era una volta dalla gelosia. Ci viene detto che per sedici anni il re si chiude vivendo in un isolamento virtuale per tormentarsi ricordando i suoi crimini. Sembra non avere alcuna speranza di perdono. È una tentazione in cui possiamo cadere anche noi. La vergogna del peccato può paralizzare, può impedirci di chiedere l’assoluzione di Dio, che sembra troppo da raggiungere. È ovviamente un pensiero perversamente orgoglioso. Chi siamo noi per aggrapparci al nostro fardello quando Dio si offre di prenderlo su di sé?

La donna che alla fine assisterà Leonte, la devota amica della moglie Paolina, deve imparare lei stessa qualcosa sul pentimento. Nella sua (sicuramente giusta) rabbia nei confronti del re subito dopo che Ermione sembra essere morta, Paolina pronuncia parole molto dure:

Come potrai pentirti, tu, tiranno,
di queste colpe? Son troppo pesanti
perché te le rimuovano dall’anima
tutte le tue lamentose
“mea culpa”!
Non ti resta che la disperazione.
Mille ginocchia per diecimila anni
a digiunare nude, tutte insieme,
in cima a una montagna aspra e deserta,
nell’inclemenza d’un perpetuo inverno
non basterebbero ad indurre il cielo
a volger gli occhi là dove tu fossi.

Non è un buon consiglio. Anche un grande peccatore dovrebbe essere chiamato al pentimento – non perché possa in qualche modo giustificarsi attraverso uno sforzo morale, ma perché c’è un aiuto divino che viene offerto. Il quadro dipinto da Paolina suona un po’ come il Purgatorio, ma è meno fruttuoso ed eterno – più simile all’Inferno. Trascinata dalla sua condanna della tirannia, Paolina trasforma il crimine di Leonte in un idolo, rendendo il peccato più potente di Dio. La contrizione non può essere un fine in sé, né possiamo accontentarci di “Non ti resta che la disperazione”. Siamo stati creati per stare con Dio. L’orrore per il nostro peccato, la rottura di quel rapporto, dovrebbe spingerci a cercare la grazia.

C’è una versione parodistica del cattolicesimo che è come la contrizione malata di Leonte, che sprofonda senza speranza nei peccati del passato, ma il dono della penitenza è l’assoluzione del peccato. Con fede portiamo il nostro cuore contrito ai ministri del Signore, sapendo che la grazia ci aspetta.

Nella scena finale de Il Racconto d’Inverno, Paolina ricopre il ruolo sacerdotale. Non consiglia più la contrizione senza speranza; il ritorno di una principessa perduta l’ha ispirata ad offrire l’assoluzione che può dare. Ci rivela la regina e parla con una voce santa quando dice al re: “Quello ch’è necessario, in questo istante, è che teniate accesa in voi la fede”. Leonte deve avere fiducia nel fatto che il suo crimine (anche se grande) non ha spezzato lui o la sua famiglia oltre la riparazione soprannaturale. Ed ecco che la statua cammina, e parla. È Ermione. Dopo un inverno durato tanti anni, è tornata la primavera.

C’è una morsa gelida di contrizione, ma segue sempre la primavera, nella speranza che il Signore della nuova vita possa vivere in noi.

Alexi Sargeantè un aspirante drammaturgo e regista che ha studiato alla Yale University, e attualmente è vice-editoreand della rivista First Things.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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