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Il 55% di chi accede all’eutanasia legale soffre di curabile depressione

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© PublicDomainPictures

Unione Cristiani Cattolici Razionali - pubblicato il 22/03/16

Ad affermarlo uno studio di febbraio

di Roberto Reggi

Il tema dell’eutanasia, e in più in generale del “fine vita”, è molto delicato e dibattuto per le sofferenze personali che sono in gioco e per le possibili ideologie retrostanti.

La morale cattolica è sobria e chiara e in linea col comune buon senso: come l’uccisione di qualunque persona innocente, “il mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte”(cioè l’eutanasia o suicidio assistito) è una cosa “moralmente inaccettabile” (CCC 2276). D’altro canto, quando un malato in stato di sofferenza cronica è sottoposto a procedure mediche che sono “onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi” (CCC 2278, il cosiddetto“accanimento terapeutico”), può essere legittima l’interruzione delle cure, accompagnando la morte naturale con sedazione terminale.

Negli ultimi anni in alcune nazioni sono state promulgate leggi che permettono l’eutanasia, all’interno del più ampio quadro della cosiddetta“cultura dello scarto”, più volte denunciata dai papi recenti (942 ricorrenze sul sito del Vaticano). Una nazione che rappresenta un vero e proprio modello a riguardo è l’Olanda, della quale ci siamo già occupati (Ultimissima 21/03/11 e Ultimissima 31/10/11). A partire dalla legalizzazione, quello che è via via emerso in particolare in questo paese è interessante e inquietante: in larga parte dei casi la soppressione dei pazienti è avvenuta senza un loro consenso; in singole cliniche i medici hanno optato per non rianimare pazienti sopra i 70 anni; tra i criteri ammissibili per l’eutanasia sono incluse anche malattie non terminali, disturbi psichiatrici (come ansia e depressione) e fattori sociali (come mancanza di legami sociali e risorse finanziarie).

Uno studio recente permette di cogliere meglio la situazione. Pubblicato su JAMA Psychiatry (febbraio 2016 ), i ricercatori hanno esaminato 66 casi di suicidio assistito avvenuti in Olanda tra il 2011 e 2014. In 36 casi, cioè il 55%, la principale “malattia” che ha portato alla richiesta dell’eutanasia era la depressione. Cosa che, rilevano gli autori, suscita il disappunto di medici non psichiatri, i quali considerano l’eutanasia eventualmente lecita solo nel caso di malattie mediche terminali.

A questo problema si ricollega il paper pubblicato sulla rivista ammiraglia JAMA (una delle più autorevoli al mondo in campo medico) nel gennaio 2016, studio dal significativo titolo: “Perché i medici si possono opporre al suicidio assistito”, iniziando con la lapidaria frase: “Il suicidio medico assistito è sempre giustificabile? No”. Il paper cita uno studio compiuto in Oregon tra coloro che richiedono l’eutanasia e, anche in questo caso, le cause citate sono prettamente di stampo psicologico-sociale: perdita di autonomia (92% dei casi), incapacità di compiere attività (cioè sentirsi inutili, 89%), perdita di dignità (80%), mancato controllo dei proprio corpo (50%), essere un peso per i propri cari (40%). Solo nel 25% dei casi, rileva l’articolo, la causa della richiesta di morire è relativa al dolore fisico provato.

Qualche decennio fa, quando Soylent Green (1973, ambientato nel 2022) era solo un distopico film di fantascienza, nessuno avrebbe effettivamente creduto che negli anni attuali alla frase: “Mi sento depresso o solo, voglio morire”, lo sventurato si sarebbe visto proporre il modulo da firmare. Ma è una logica naturale e inumana conseguenza della strategia del piano inclinato. In pochi anni si è passati dalla comprensibile e lecita richiesta disedazione palliativa nel caso di una dolorosa malattia terminale, alla soppressione attiva con consenso del paziente, alla soppressione a discrezione dei medici e, quindi, alla soppressione per altre malattie organiche non terminali, come la depressione, disturbo assolutamente curabile.

È significativo che da una rivista del calibro di JAMA comincino ad emergere dubbi su queste conclusioni, almeno per l’ultimo passaggio. Quale potrebbe essere una risposta complessiva alla logica della “cultura dello scarto” nel tema del fine vita? Di fronte alla prospettiva della morte, quello che spesso manca è una ricerca di senso ai dolorosi eventi che si stanno vivendo, con la conseguente depressione e richiesta di farla finita. E può mancare anche un solido sostegno familiare, amicale e sociale, che rende soli e impotenti i malati di fronte all’inevitabile futuro. È su questi due ambiti che sarebbe giusto e doveroso cercare di intervenire, cercando di attenuare il senso di vuoto e di solitudine.

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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