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Nuovo attacco al cuore dell’Europa

Bruxelles aereoporto internazionale attentato

Jef Versele via Facebook

Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 22/03/16

Cosa sappiamo del terribile doppio attentato di Bruxelles?

Alle otto di questa mattina due esplosioni si sono verificate all’aeroporto della capitale belga, vicino al banco dell’American Airlines, causando vittime e feriti. Altre esplosioni si sono verificate nella metropolitana, nelle stazioni vicino alle istituzioni dell’Unione Europa. La metro è stata chiusa e la stazione centrale è stata evacuata. L’attentato segue di poco più di 48 ore la cattura di Salah Abdeslam il decimo uomo del commando dalla strage del 13 novembre a Parigi che causò 130 morti. La procura belga aveva lanciato l’allarme per nuovi attentati. Allo stato attuale le vittime accertate sono 34, oltre 200 i feriti.

La devastazione della Metropolitana

La vicinanza con la sede della UE

https://twitter.com/infos140/status/712200767961174017

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Il fanatismo islamico alle origini della strage?

Il Messaggero riporta come le autorità belghe temessero nuovi attentati dopo l’arresto venerdì scorso del super ricercato Salah Abdeslam, tanto che l’allerta terrorismo era rimasta invariata. Domenica il ministro degli Esteri belga, Didier Reynders, aveva dichiarato che Abdeslam «era pronto a rifare qualcosa a Bruxelles».

«Abbiamo trovato molte armi, delle armi pesanti durante le prime indagini e abbiamo trovato una nuova rete attorno a lui a Bruxelles», aveva spiegato. «Siamo lontani dall’aver risolto il puzzle», aveva ammesso ieri il procuratore federale belga Frédéric van Leeuw in una conferenza stampa a Bruxelles, assieme al procuratore di Parigi Francois Molins. «Il fatto di aver trovato dei combattenti stranieri dotati di armi pesanti è naturalmente preoccupante – ha aggiunto – è evidente che non erano qui per un pic nic. L’inchiesta dovrà determinare se pianificavano degli attentati». La cattura di Abdeslam era stata preceduta martedì da una sparatoria durante un raid della polizia belga e francese contro un appartamento nel quartiere di Forest a Bruxelles. Nello scontro a fuoco era morto Mohammed Belkaid, 35 anni, che lo scorso 9 settembre ha attraversato in auto il confine austro ungherese assieme ad Abdeslam e un terzo uomo coinvolto negli attentati di Parigi, Najim Laachraoui (22 marzo).

Il Sole 24 ore riporta l’intervento di André Jacob, ex responsabile belga del servizio anti-terrorismo della sicurezza dello Stato, che ha imputato gli attacchi proprio agli arresti degli ultimi giorni, spiegando che presumibilmente sono una risposta dell’estremismo islamico.

Politologi e sociologi si interrogano ormai da mesi sulle ragioni per cui il Belgio è stato il paese dal quale sono stati organizzati i recenti attentati parigini dove 130 persone hanno trovato la morte. Una cifra ha colpito gli osservatori. Il Belgio è il paese che in termini pro capite ha il numero maggiore di propri cittadini che sono andati a combattere nella guerra civile in Siria. La magistratura belga stima che 272 giovani belgi stiano combattendo nel paese mediorientale. Vi è certamente un problema di integrazione della popolazione immigrata, e in particolare musulmana (22 marzo)

Una spiegazione che trova conforto in una analisi molto dettagliata di oggi sul Foglio dove viene svelato il legame tra la prima – e quindi poi influente – presenza islamica in Belgio e il fanatismo wahabita dell’Arabia Saudita che di fatto avrebbe “comprato” la propria libertà d’azione in cambio del petrolio già dagli anni ’70.

Come ha fatto Molenbeek, la “Piccola Manchester” che il sindaco socialista Philippe Moureaux definiva orgoglioso “laboratorio socio-multiculturale”, a diventare il quartier generale del jihad europeo da Atocha al Bataclan, il “carrefour de l’islamisme”, il crocevia dell’odio islamista in Europa, come lo definisce Libération? Nel 1974, il governo belga riconobbe ufficialmente la religione islamica. Fu il primo paese europeo. Il risultato immediato, nel 1975, fu l’inserimento della religione islamica nel curriculum scolastico. “Fu una decisione del re belga Baldovino”, dice al Foglio Michael Privot, massimo islamologo belga e direttore dell’Enar, l’European Network Against Racism. Baldovino, il “re triste”, cattolico e austero, “aveva stabilito buoni legami con la monarchia saudita e il re Faisal. Questo riconoscimento avvenne nel mezzo della crisi petrolifera, perché il Belgio cercava rifornimenti dall’Arabia Saudita. Nel 1974, i musulmani in Belgio erano alla prima generazione, lavoravano nelle miniere e volevano spazi per pregare nelle moschee. Allora non c’era autorità religiosa in Belgio. Il re Baldovino offrì ai sauditi il Pavillon du Cinquantenaire con un affitto della durata di 99 anni. L’edificio sorge a duecento metri dal Palazzo Schuman e dal quartier generale dell’Unione europea; l’Arabia Saudita lo trasformò nella Grande Moschea del Cinquecentenario, diventando l’autorità islamica de facto del Belgio. Alla fine degli anni Novanta è nata una autorità formale, l’Esecutivo dei Musulmani in Belgio, che si occupa degli aspetti materiali, ma non degli aspetti teologici. Questo spazio è rimasto occupato dalla Grande Moschea sotto guida saudita”. Tre anni fa, documenti di WikiLeaks hanno rivelato tensioni fra il Belgio e l’Arabia Saudita. Bruxelles era molto preoccupata per il fondamentalismo islamico diffuso dalla Grande Moschea. Le autorità belghe ottennero così la testa del direttore, Khalid Alabri, un diplomatico saudita. Una scelta, quella fatta dal Belgio quarant’anni fa, criticata oggi anche dal ministro francofono belga Rachid Madrane, musulmano, che al giornale La Libre ha detto: “Il peccato originale del Belgio consiste nell’aver consegnato le chiavi dell’islam nel 1973 all’Arabia Saudita per assicurarci l’approvvigionamento energetico”. Sono tante le propaggini saudite a Bruxelles. Il centro Imam al Bukhari coordina le attività culturali pro-saudite in Belgio, mentre il Centro islamico e culturale del Belgio (Cicb) è diventato la sede europea della Lega musulmana mondiale. L’obiettivo del Cicb è quello di “rafforzare la vita spirituale dei musulmani che vivono in Belgio”, aprendo moschee e scuole coraniche. Ma il Cicb, per fare qualche esempio, consiglia alle donne di consultare soltanto ginecologi femmine, scoraggia i giovani musulmani dal vendere birra e raccomanda ai musulmani di abbassare lo sguardo in presenza di una bella donna. Sermoni al Cicb chiamano Bruxelles “capitale dei kuffar” (infedeli). Il patto col Belgio rientra in un più vasto progetto globale: dal 1979, le autorità saudite hanno speso più di sessanta miliardi di euro nella diffusione nel mondo del wahabismo, una visione dell’islam che si basa sul monoteismo assoluto (tawhid), il divieto di innovazioni (bid’ah), il rigetto di tutto ciò che non è musulmano, la scomunica dei “miscredenti” (takfîr) e la lotta armata (jihad) (22 marzo).

Un fanatismo condannato dagli stessi musulmani

L’agenzia Reuters ha diffuso la foto di un giovane migrante al campo di Idomeni, in Grecia, che mostra un cartello in cui dice di essere dispiaciuto per gli attacchi avvenuti a Bruxelles questa mattina.

https://twitter.com/ReutersParisPix/status/712239336415170560

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Quale risposta dall’Europa?

L’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza Federica Mogherini si trova in Giordania per una visita ufficiale. Al termine della conferenza stampa sull’attacco di Bruxelles, in cui ha detto che oggi è «un giorno triste per tutta l’Europa», Mogherini si è commossa e ha lasciato la sala.

Oggi le istituzioni europee sono a lutto

Tuttavia come sottolinea la giornalista Flavia Perina, già direttore del Secolo d’Italia e ora editorialista su Linkiesta, la questione è quasi tutta di natura culturale:

Il vero nocciolo della permeabilità europea a questa nuova stagione di bombe è il rifiuto di ammettere che, oltre l’emergenza profughi e la guerra lontana, esista un terrorismo endogeno, nazionale, con il passaporto europeo in tasca, regolarmente residente, e che vada combattuto con i metodi classici che si usano in questi casi. L’Unione ha preferito giocare con l’allarme-frontiere piuttosto che occuparsi con serietà delle polveriere che crescono nelle sue periferie e dei non-immigrati con il kalashnikov che vivono da due o tre generazioni dentro i suoi confini. Ora ne paga il prezzo, e ancora una volta è un prezzo amarissimo. A questa Unione senza memoria sembra impossibile (o forse non fa comodo ammetterlo) che il nemico sia nato in casa sua, sia cresciuto nelle sue scuole, lavori o sia disoccupato nelle sue banlieu, e sotto la vernice di un’approssimativa cultura condivisa, sia pronto a fare strage nei suoi bar e nelle sue piazze. Eppure ogni nazione europea ha conosciuto nell’arco della seconda metà del Novecento fenomeni di terrorismo interno talmente significativi da cancellare per sempre l’idea che avere la stessa cittadinanza, frequentare gli stessi college, le stesse palestre o gli stessi muretti costituisca un antidoto alle scelte di radicale contrapposizione all’ordine costituito e alla democrazia stessa.

In Italia tra il 1968 e il 2012 l’Italia è stata insanguinata da più di 14mila attentati. Nel 1980, in un unico anno, 120 italiani sono morti in attentati terroristici perpetrati da altri italiani. Qualcosa di simile è successo anche in Germania negli anni ’70, così come in Gran Bretagna col conflitto nordirlandese. Il “nemico” era interno, nato e cresciuto nella casa accanto. Non veniva da chissà dove, ma era presente – potenzialmente – in ogni famiglia. Ora è il momento di capire che non bastano i proclami di unità, l’Europa deve agire, come agirono gli stati nazionali in quel periodo:

Così l’Europarlamentare italiana Silva Costa (PD)

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