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Spiritualità
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Reggere la mano di mia figlia quando sta per lasciarci

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Laura Kelly Fanucci, su gentile concessione

Laura Kelly Fanucci - pubblicato il 07/03/16

Le persone dicono che un'esperienza del genere lasci senza parole. Ma io sì che ho qualcosa da dire

Ci sono molte storie che voglio raccontarvi. Sulla nascita delle nostre figlie, sulla loro vita e sulla loro morte. Storie che sono terminate, e storie che sono appena iniziate.

Per alcune di queste sarà necessario aspettare mesi se non addirittura anni, prima che io possa condividerle. Altre invece le terrò in sacro segreto dentro me stessa, fino alla fine dei miei giorni.

Ma questa è la storia che voglio raccontarvi in questo momento.

Margaret Susan e Abigail Kathleen sono nate sabato, attraverso un parto cesareo. Quando quella notte siamo finalmente andati a dormire, loro erano nel reparto di terapia intensiva neonatale. Domenica mattina, non lo erano più. Abbiamo speso tutta domenica pomeriggio con Maggie, mentre stava per spegnersi tra le nostre braccia.

Le persone dicono che un’esperienza del genere lasci senza parole. Ma io sì che ho qualcosa da dire. E sono parole dure. Le persone sostengono che i genitori non dovrebbero attraversare questo, ma invece devono. Ed è qualcosa di terribile.

Ma ciò su cui tutti sono d’accordo è che avere a che fare con una tragedia del genere per due giorni di fila – con due piccole creature tra le braccia che esalano l’ultimo respiro mentre il loro cuoricino smette di battere – è insostenibile. Inaccettabile. Un vero inferno.

Sono qui per dirvi che non è così.

Domenica siamo crollati a letto, con il peso del dolore. Sapevamo che la mattina seguente avrebbe portato con se lo stesso compito, perché avremmo dovuto dire arrivederci ad Abby. Ho singhiozzato prima di andare a dormire, piangendo quando mi sono risvegliata. Non sapevo come fare ciò che doveva essere fatto.

Abbiamo trascinato i piedi per (provare a) fare colazione. Abbiamo pregato con il cappellano. Infine, il tremendo telefono dell’ospedale è squillato di nuovo. Sapevamo che dovevamo andare. Mi lasciai andare sulla sedia a rotelle e Franco mi ha lentamente guidata giù per quei corridoi che avevamo iniziato ad odiare, con le loro figure felici di animali e farfalle, di raggianti fotografie di miracolati e sopravvissuti.

Quando siamo entrati nella stanza di Abby, l’infermiera ha chiesto se volessimo tenerla in braccio per un po’, prima di cominciare a staccarle i tubi. Non c’era fretta, disse. Potevamo prendere tutto il tempo che volevamo per stare con lei. Ma volevamo davvero passare quel momento?

Il nodo alla gola è defluito in un singhiozzo. No. Volevo stare pelle a pelle con due gemelle sane. Non con una creatura piccola e malata, che sarebbe morta in poche ore. Tutto, ma non questo.

L’infermiera ha gentilmente insistito. Si percepiva che anche Franco fosse riluttante e troppo stanco. Ma qualcosa ci spinse a farlo. Va bene, ci siamo detti. L’avremmo presa in braccio, pelle a pelle.

È qui che devo mettere in pausa la storia. È qui che devo ammettere che, se qualcuno mi avesse detto cosa stesse per accadere, avrei scosso la testa negando con forza che una cosa del genere sarebbe mai potuta accadere. Ma è successo proprio a me. Sembrava un sentimento puro, un sogno malinconico. Non la realtà.

Devo dire questo perché capisco cosa potreste pensare leggendo la seguente parte della storia.

L’infermiera ha liberato Abby dal suo nido di cavi e tubi. Ho tolto la camicia da sopra la mia testa e ho sfilato il camice dalle spalle. Ho inclinato indietro il lettino, le file di punti delle due operazioni di sabato mandavano dolori lancinanti alla pancia. Hanno poggiato lentamente Abby sul mio petto, l’hanno coperta con delle coperte calde, e hanno lasciato la stanza.

E ogni singola goccia di tristezza ha lasciato il mio corpo.

Ho iniziato a sorridere, e a sorridere sempre più. Questa non è la reazione che ci si aspetterebbe da una donna sul cui petto le infermiere hanno poggiato la figlia neonata morente. Ma tutto è stato stravolto. Ero piena di pace. Ero riempita con la più profonda gioia mai provata Non riuscivo a comprendere perché il dolore e l’angoscia avessero preso possesso di ogni centimetro del mio corpo, prima di quell’istante. Era un mondo completamente diverso.

Abby ha respirato, e io ho respirato. Ha allungato le sue mani sul mio petto, raggiungendolo con le sue piccole dita. Ho messo la mano sulla sua schiena, sentendo i suoi polmoni e il suo cuore battere contro la mia mano. Ho chiuso gli occhi ed ero lì, seduta, che sorridevo. L’infermiera è entrata e scuotendo la testa ha detto “non posso credere che tu stia sorridendo”. Franco ha sussurrato nel mio orecchio: “Vorrei che tu potessi vedere il tuo aspetto, in questo momento. Sei così piena di gioia”.

Ha trasformato tutto.

Dopo un po’ ho provato a razionalizzare, dolcemente. Certo, forse era soltanto l’alta ossitocina post-intervento. Tutti gli ormoni dell’amore che mi hanno aiutata a legare con la piccola. Ho compreso la psicologia delle doglie e della nascita; sapevo che la scienza avrebbe potuto spiegarlo. Ma dopo 20, 30, 40 minuti di gioia continua, ho iniziato a chiedermi se non ci fosse una ragione più profonda. Perché non potevo provare un singolo sentimento di tristezza? Perché non potevo ricordare il motivo per cui piansi così tanto nel salutare Maggie, quando sapevamo che questa gioia perfetta la stava aspettando?

Non aveva senso.

Aprii gli occhi, continuando a sorridere. Franco era in pace, al mio fianco, il suo corpo rilassato, i suoi occhi non erano più ross. Vuoi darmi il cambio? Gli chiesi. Certo. Sorrise. Quindi, con l’aiuto di due infermiere, abbiamo delicatamente preso Abby dal mio petto, spostandolo sul suo. Ha chiuso gli occhi e ha sorriso; lei ha esteso le sue braccia per aggrapparsi a lui.

E proprio di fronte ai miei occhi, ho visto esattamente la stessa gioia fiorire sul suo volto.

Era lo stesso, identico, stato di beatitudine.

Abbiamo preso in braccio Abby per ore. Ci siamo dati il cambio. Abbiamo scattato delle fotografie. Quando aprivamo i nostri occhi per parlare, abbiamo avuto gli stessi dialoghi disorientati.

Non sono più triste. Questo non ha senso, il tuo aspetto è proprio ciò che io sto provando. Non ho mai avuto tanta gioia. Penso che così deve essere il cielo. Non pensavo che ci fosse qualcosa che desse questa sensazione.

E questa è la parte della storia che voglio che voi imprimiate bene nella vostra mente, così come quella piccola bambina ha impresso se stessa sul mio petto. Non sono mai stata così felice.

Avete in mente quando vivete dei momenti meravigliosi, in cui pensate che la vita sia perfetta, almeno per un istante? Il giorno del matrimonio, la nascita di un bambino, una sera d’estate baciata dal sole. Tutti noi abbiamo alcuni di questi momenti. Un assaggio fugace di ciò che è lassù. Un flash su come la vita possa essere bella quaggiù.

Ma tutto ciò che abbiamo provato prima? Nulla è stato come quello provato in quella sala d’ospedale. Là abbiamo provato, per ore, il cielo sulla terra.

Sembra abbastanza audace, da dire. Abbiamo riso di noi stessi quando ci siamo messi sullo stesso piano di San Tommaso d’Aquino. Chi oserebbe mettersi in compagnia dei santi?

Eppure, eppure, dopo ore di puro godimento di questa immensa gioia, abbiamo concluso di aver ricevuto un dono così raro quanto perfetto. Ed entrambi eravamo là, insieme. La nostra piccola figlia, la nostra seconda figlia a lasciarci, ci ha mostrato un universo che non sapevamo potesse esistere.

Eravamo proprio dentro il cuore di Dio.

Non proverò mai tanta gioia, ne sono certa. E se potessi condividere solo un centesimo di ciò che ho provato e respirato in quella sala d’ospedale, non avreste mai più alcun timore né dubbio sul divino o sull’esistenza di una vita ultraterrena. Sono certa di questo, per la profondità e la durata di quanto ho sperimentato. Sarà ancorato in ogni fibra del mio corpo, d’ora in avanti.

Questa è la storia che volevo raccontarvi. Proprio in quello che abbiamo ritenuto potesse essere il giorno peggiore della nostra vita, abbiamo ricevuto la pienezza della gioia. Incontrando la morte faccia a faccia, abbiamo trovato la vita. Aspettandoci disperazione, abbiamo scoperto nulla se non amore.

È una storia che non ha senso. Una storia che stravolge ogni cosa. Una storia che ha trasformato ciò che costituisce la nostra stessa essenza, come vogliamo spendere il resto delle nostre vite e tutto ciò che sappiamo su Dio.

Potrebbe essere solo l’inizio della migliore storia che io abbia mai avuto modo di condividere.

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Laura Kelly Fanucciè una scrittrice sulla genitorialitàsulla fede e sul discepolato. Ha vinto numerosi premi. Cura il blog Mothering Spirit, da dove è stato preso questo articolo (pubblicato su gentile concessione dell’autrice).

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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