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Carcere: giustizia o vendetta?

Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 05/03/16

Pieri (Com. Giov. XXIII): “Il carcere come è adesso è una barbarie”. I percorsi alternativi per il reinserimento sociale

E’ penoso un sistema carcerario che non recupera le persone”. Lo ha detto con chiarezza papa Francesco nell’incontro con i detenuti a Philadelphia, durante il viaggio negli Stati Uniti; solo una delle tante occasioni in cui ha espresso la sua attenzione verso il mondo del carcere, dal gesto della Lavanda dei piedi nell’istituto di Casal del Marmo nel primo Giovedì Santo da pontefice, all’ultimo incontro con i detenuti di Ciudad Juarez in occasione del viaggio in Messico. L’essere in carcere, ha aggiunto Francesco a Philadelphia, ha l’unico scopo di “tendere la mano che aiuti al reinserimento sociale” che “tutti siamo chiamati a stimolare, accompagnare, realizzare”, un reinserimento che “benefica ed eleva il livello morale di tutta la comunità e società”. La Costituzione italiana è d’accordo con il papa: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. E’ in questa tensione tra la giustizia e la necessità di dare ai detenuti la possibilità effettiva di reinserirsi nella comunità che si inserisce il percorso rieducativo “Cec – Comunità educante con i carcerati” messo a punto dalla Comunità Papa Giovanni XXIII. Il progetto ha coinvolto oltre 250 detenuti e si è dimostrato un’efficace alternativa al carcere abbassando il grado di recidiva – cioè la percentuale di ex detenuti che uscendo dal carcere commettono nuovi reati – dal 75 al 10%. Un progetto pensato con il coinvolgimento del territorio e senza dimenticare le ragioni delle vittime, come spiega il responsabile del Cec, Giorgio Pieri.

Cos’è il Cec- Comunità educante con i carcerati?

Pieri: E’ un progetto educativo che si fonda su una formazione umana e una formazione valoriale religiosa. Nella formazione umana cerchiamo di curare le ferite che troviamo nel cuore dell’uomo: quando andiamo a vedere la storia di queste persone che sono state carnefici e hanno fatto tanto male alla società, scopriamo che prima di farlo, il male lo hanno subito. I germi del male – perché il male è un grande mistero – li troviamo nelle ferite del cuore dell’uomo. Non si può pensare che una persona non compia più il male se non curiamo quelle ferite. Il carcere, come è concepito oggi è una barbarie, un sistema vendicativo. Noi dobbiamo passare da una giustizia vendicativa a una giustizia educativa, dove al centro c’è l’uomo. Per questo, al posto del carcere, vorremmo sviluppare comunità educanti nel territorio nazionale per 15-20 mila persone.

Percorsi alternativi al carcere

C’è il rischio che, aiutando a venir fuori dal carcere delle persone che hanno commesso dei reati, le vittime possano sentire ignorate o non considerate abbastanza le offese ricevute?

Pieri: C’è un cammino di perdono e di riconciliazione che si deve fare sia per chi commette reati, che per chi li subisce. Noi ci stiamo impegnando molto più sul fronte del recupero delle persone che delinquono, ma queste poi, con le possibilità che hanno, devono incontrare le vittime dei loro reati. Per questo abbiamo favorito incontri con tossicodipendenti che sono venuti a parlare alle persone accolte nelle nostre strutture perché condannate per spaccio di droga; abbiamo fatto parlare i genitori dei tossicodipendenti e le persone che hanno subito dei furti, così come le vittime di altri tipi di reato.

E’ un tema molto delicato, ma la domanda più importante è: questa società vuole davvero investire nell’uomo? Per farlo non c’è altra via della relazione tra uomini che si devono incontrare.

Il territorio che accoglie le strutture della Cec con i detenuti come risponde? Ci sono delle resistenze?

Pieri: Nella casa “Madre del perdono”, nella provincia di Rimini, che è la prima realtà e in cui al momento ci sono 18 detenuti, abbiamo più volontari rispetto alle persone accolte. Il territorio risponde bene quando vede che c’è la possibilità di fare del bene perché è nel cuore dell’uomo fare del bene. E quando si mettono fianco a fianco queste persone scoprono che nel loro reato c’è anche il peccato dell’altro. Nel cammino fatto insieme non c’è chi salva e chi è salvato, ma davvero ci si salva insieme. Questa disponibilità parla anche di una società che è ancora viva e che è capace ancora di dare il meglio di sé.

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