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Che c’è di tanto bello nel dolore, Charlie Brown?

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Robert McTeigue, SJ - pubblicato il 02/03/16
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Come aiuto per il pentimento durante la Quaresima, non c’è ingrediente migliore del doloreOh good grief!” [in italiano tradotto in genere come “Misericordia!”, o “Santo cielo!”, ma che letteralmente suonerebbe come “Oh, buon dolore”, o “Oh dolore positivo!”, visto che la parola inglese grief significa dolore, n.d.t.] è l’esclamazione resa famosa da Charlie Brown, uno dei protagonisti dei fumetti Peanuts, di cui da ragazzo ero un affezionato lettore.

Anche se ho sempre fatto il tifo per il povero Charlie Brown e ammiravo i suoi nobili sforzi, da giovane non riuscivo a comprendere questo suo “marchio di fabbrica”. Per me non aveva senso. Cosa c’è di tanto bello nel dolore?, mi chiedevo.

Ora sono molto più vecchio, anche se sempre un grande fan di Charlie Brown, e non sono diventato più sostenitore del dolore di quando leggevo i fumetti dei Peanuts da ragazzo. Credo però che il dolore possa essere un ingrediente prezioso (anche se potenzialmente tossico) nel coltivare il pentimento che il periodo della Quaresima cerca di promuovere.

 

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Consideriamo di collegare dolore e pentimento e di guardarli attraverso la lente di una poesia intitolata Good Friday (Venerdì Santo), di Christina Georgina Rossetti:

Sono una pietra e non una pecora
Per il fatto di poter stare, o Cristo, sotto la tua croce,
Per contare goccia dopo goccia il tuo sangue che scorre lentamente
E non piangere comunque?

Non così quelle donne amate
Che ti piangevano con estremo dolore;
Non così Pietro, che era caduto e piangeva amaramente;
Non così il ladrone che è stato toccato da te;

Non così il sole e la luna,
Che hanno nascosto il proprio volto in un cielo senza stelle,
Un orrore di grande oscurità a mezzogiorno –
Io, soltanto io.

E tuttavia non smettere,
Ma cerca la tua pecora, vero Pastore del gregge;
Più grande di Mosè, voltati e guarda ancora una volta
E colpisci una pietra.

I peccatori come me possono essere riluttanti ad aprirsi a piangere sul Cristo crocifisso, perché quando ci viene messo davanti il prezzo del nostro peccato è troppo tremendo. E così, come nota nella prima strofa la Rossetti, diventiamo più simili a una pietra che a una pecora, non soffriamo mentre l’ultima goccia di vita fluisce dal Cristo crocifisso.

Nelle due strofe successive, la poetessa contrappone il peccatore incallito a chi ha pianto Cristo – le pie donne ai piedi della croce, San Pietro, il buon ladrone, perfino il sole e la luna. E tuttavia la poesia non termina con disperazione o scuse, ma con una supplica fiduciosa e disperata: “Colpisci una pietra”!

E dobbiamo chiederci il perché. Cosa c’è di tanto bello nel dolore? Cos’è così particolarmente desiderabile nel dolore per i nostri peccati davanti al Cristo crocifisso? Perché resistiamo in modo così ostinato? È perché amiamo il nostro peccato più di quanto amiamo Cristo? Forse. È perché il dolore per il peccato potrebbe essere incompatibile con il culto dell’autostima così importante nella nostra cultura? Può essere.

Penso, però, che ci sia una ragione più profonda e probabilmente più insidiosa che nutre la durezza del cuore che ci impedisce di piangere sul Cristo crocifisso per i nostri peccati. Resistiamo a questo dolore perché ci disprezziamo talmente come peccatori che ci risulta insopportabile stare faccia a faccia con il Signore che ci ama fino alla morte e oltre. Se avessimo il coraggio di ammetterlo, potremmo confessare che ci odiamo per aver ucciso con il nostro peccato l’amore a cui abbiamo sempre aspirato, e che temiamo che non potremo mai essere certi di non ucciderlo di nuovo. Se tutti lo credessero, chi potrebbe negare che sarebbe troppo terribile da affrontare?

E allora, per risparmiarci l’apparentemente infinito dolore dell’amore libero ma caro che abbiamo desiderato e rifiutato, induriamo il nostro cuore e cerchiamo di vivere come una pietra e non come una pecora. Proteggerci da questo dolore positivo ci evita anche il pentimento che ci libererebbe e ci lancerebbe direttamente verso il cuore divino per il quale siamo stati creati. Senza un pentimento autentico e pieno di dolore, possiamo solo giocare ad essere peccatori, e possiamo solo giocare ad essere salvati. In altre parole, una Quaresima “ridotta” può portare solo a una Pasqua “ridotta”. Che fare?

 

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Consideriamo questo passo di un’omelia pronunciata da papa Benedetto XVI nel 2010:

La penitenza è grazia; è una grazia che noi riconosciamo il nostro peccato, è una grazia che conosciamo di aver bisogno di rinnovamento, di cambiamento, di una trasformazione del nostro essere. Penitenza, poter fare penitenza, è il dono della grazia”.

A mio avviso, il “dolore positivo” della Quaresima è un segno che dobbiamo capire che siamo peccatori e che siamo peccatori amati. I peccatori amati possono vedere che la risposta più degna alla misericordia che è costata tanto al nostro Padre celeste è pentirsi, ovvero permettergli di lavorare in noi, di modellarci, per poter essere liberi di andare da Lui, dove è già pronto un banchetto per noi.

 

Padre Robert McTeigue, S.J. è membro della provincia del Maryland della Compagnia di Gesù. Docente di Filosofia e Teologia, ha una lunga esperienza in direzione spirituale, ministero di ritiri e formazione religiosa. Insegna Filosofia presso la Ave Maria University ad Ave Maria, Florida, ed è noto per le sue lezioni di Retorica ed Etica Medica.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]