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Nato senza le gambe, a 15 anni è un atleta pluripremiato

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Thomas L. McDonald - Aleteia - pubblicato il 23/02/16
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“Voglio aiutare”Tulia Jiménez-Vergara si trovava in un orfanotrofio stringendo un bambino trovato nella spazzatura quando vide per la prima volta un altro piccolo orfano, Miguel. Aveva appena due anni ed era pieno di gioia e di energia, mentre gridava “Guardami!” e si aggirava per la stanza senza problemi pur non avendo le gambe.

Tulia era una studentessa nubile tornata in Colombia per far visita al padre morente. Suo zio le aveva chiesto di aiutare a portare del cibo alle suore dell’Hogar Luz y Vida (Casa Luce e Vita), un orfanotrofio cattolico gestito da suor Valeriana García che accoglieva solo i bambini più difficili da ricollocare. Tulia voleva adottare un bambino, ed ecco un piccolo nato senza gambe che rifiutava di essere messo da parte o frenato.

Tornata in America, ha iniziato a lavorare come docente di spagnolo presso il College of New Jersey e ad adoperarsi per portare Miguel a casa con sé. Ci è voluto più di un anno, e la transizione del bambino alla vita in America con una nuova famiglia non è sempre stata facile.

Oggi, a 15 anni, Miguel pensa di aver avuto difficoltà ad adattarsi alla sua nuova casa perché era molto legato alle suore e sentiva la mancanza dell’orfanotrofio, l’unica casa che ricordava.

Gli era stato anche diagnosticato il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, che per lui è fonte di disabilità quanto la mancanza delle gambe. La scuola era difficile, e gli insegnanti non erano d’aiuto. Non riusciva a concentrarsi e a trovarsi bene con le persone.

Tutto questo ha reso i primi anni in cui Miguel e Tulia sono stati insieme una sfida. Quando lui aveva sei anni, tuttavia, ha incontrato i membri del North Jersey Navigators, che gestisce dei programmi per aiutare i bambini disabili a fare sport. Per Miguel, lo sport avrebbe risolto due problemi: l’iperattività e il modo in cui il mondo lo percepiva.

Verso le Paraolimpiadi

“Michael Phelps ha iniziato a nuotare perché la madre voleva che si calmasse un po’”, ha osservato Miguel durante un’intervista.

“Lo sport tira fuori tutta l’energia, e quindi fa concentrare. All’inizio non volevo allenarmi. Mia madre voleva che facessi atletica leggera. Quando mi allenavo, riuscivo a concentrarmi molto di più sui compiti. Non ero un gran tipo. Ignoravo le persone. Ero una specie di solitario. Impegnarmi nello sport ha cambiato tutto”.

L’allenamento lo ha aiutato non solo a concentrarsi, ma anche a capire che era bravo. L’atletica leggera era il suo sport, ma gradualmente ha esteso il suo raggio d’azione a nuovi campi. Oggi fa 100, 200, 400, 800 e 1.500 metri, 5K, lancio del peso, del giavellotto e del disco, nuoto, tiro con l’arco e triathlon. Si allena cinque giorni a settimana, due dei quali a quasi due ore di distanza da casa, sia con i Navigators che con la squadra di atletica leggera della Notre Dame High School di Lawrenceville, nel New Jersey.

“Miguel è maturato al punto che prende il suo allenamento più sul serio, e lo considera una necessità per raggiungere i suoi obiettivi”, ha affermato John McKenna, direttore delle performance degli atleti della Notre Dame High School.

“Non riceve un trattamento di favore, e viene spinto e sfidato ogni giorno ad abbandonare la sua ‘zona di comfort’. (…) Se Miguel continua ad allenarsi al di fuori di questa, non ci sono limiti a ciò che può raggiungere. Lo vedrei un giorno alle Olimpiadi”.

Non sono solo le parole di un allenatore orgoglioso. Miguel non si limita ad allenarsi o a gareggiare. Vince. Ha stabilito vari record e ha portato a casa 15 medaglie d’oro e 4 d’argento ai Campionati Nazionali Juniores per Disabili. L’estate scorsa è volato in Olanda per gareggiare ai Giochi Internazionali sulla Sedia a Rotelle e ai Giochi Sportivi Mondiali Juniores per Amputati, vincendo una medaglia d’oro, tre d’argento e tre di bronzo. Ora è uno dei più premiati atleti juniores degli Stati Uniti.

“La chiave per allenare Miguel è non vederlo come un handicappato. Lo consideriamo un atleta che vuole lavorare per realizzare il suo sogno”, ha affermato McKenna.

Il dono dello sport

Anche in famiglia Miguel è sempre stato trattato normalmente. “Non lo abbiamo mai considerato un ‘oggetto’ fragile”, ha ricordato Tulia. La vera difficoltà non è stata tanto la disabilità, quando una serie di ostacoli meno tangibili. Non aveva una figura paterna. Aveva problemi a concentrarsi. Doveva sviluppare buone abitudini. Doveva lavorare sulle sue abilità sociali. Lo sport, afferma la madre, “gli ha dato la disciplina e la struttura di cui aveva bisogno”. L’esercizio gli ha permesso di sfogare l’energia in eccesso, i compagni di squadra lo hanno aiutato a imparare a relazionarsi e gli allenatori gli hanno dato un’impronta paterna.

“Mi piaceva vedere cosa potevo fare”, ha affermato Miguel. “Si pensa che le persone disabili non possano fare molto, e si prova pietà per loro. La gente cercava di aiutarmi quando non ne avevo bisogno, e pensavo che avrei fatto vedere a tutti cosa potevo fare senza bisogno che mi aiutassero”.

Anche la Chiesa ha fatto la sua parte per aiutare Miguel, dandogli la sua prima casa e aiutandolo a trovare una nuova famiglia, ma anche offrendogli un’educazione cattolica, prima alla Incarnation St. James Elementary School di Ewing, New Jersey, e poi alla Notre Dame High School, laddove le scuole pubbliche avevano fallito.

“Quando eravamo in crisi”, ha ricordato Tulia, “la Chiesa e la scuola sono state le uniche ad accettarlo dall’inizio. Quando sono andata per la prima volta all’Incarnation St. James, la suora ha detto: ‘Per voi la porta è sempre aperta’. Lo hanno aiutato in ogni modo, anche raccogliendo denaro per aiutarlo a pagare i viaggi per partecipare alle gare”.

Miguel vuole restituire agli altri il dono dello sport che ha ricevuto, e per questo pensa a sé come a una sorta di evangelizzatore del potere dello sport di aiutare i disabili a trovare un nuovo significato e un nuovo obiettivo per la loro vita. A questo proposito, per il secondo anno guiderà un gruppo di lavoro nel suo liceo per presentare ai disabili il potenziale delle attività fisiche e dello sport.

“Il mio obiettivo nella vita è aumentare la consapevolezza dell’importanza dello sport”, ha dichiarato. “La maggior parte delle persone, se sono nate disabili o lo sono diventate in seguito a un incidente, soffrono per questa condizione. Devono andare avanti e provare qualcosa di nuovo, e lo sport può aiutare, quando vedono cosa riescono a fare. E questo vale anche per le persone normodotate. Voglio essere un allenatore per un altro bambino che pensa di non essere in grado di fare qualcosa. Voglio aiutare”.

Thomas L. McDonald, @ThomasLMcDonald, è scrittore e storico della Chiesa.

 

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]