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Un turbante azzurro per raccontare il tumore al seno

Portrait of a nice middle-aged woman recovering after chemotherapy – focus on her smiling relax attitude – shutterstock_163011854

© JPC-PROD / Shutterstock

Silvia Lucchetti - Aleteia - pubblicato il 22/02/16

Una giovane donna rilegge il “calvario” della sua malattia attraverso il dono della speranza

Il dolore che una grave malattia infligge al corpo e all’anima è qualcosa che le persone tendono naturalmente a rifiutare, un elemento alieno a cui non si riesce a dare senso. E’ un’esperienza che pone a contatto con emozioni e sentimenti terribili relativi alla morte, con il cui fantasma si è obbligati a confrontarsi.

Il tumore rappresenta simbolicamente la malattia che più delle altre attiva l’angoscia della fine: rende “nudi”, svela la vulnerabilità e l’impotenza dell’uomo. Il dolore viene vissuto da ciascun individuo in modo diverso, unico, e quindi per certi aspetti non comunicabile ad altri, né da essi comprensibile. Il muro che si erge tra chi soffre e chi gli sta accanto rischia di isolare entrambi, di separarli, a meno che ciascuno con l’aiuto di Dio non accetti di sentire, oltre al proprio, anche il dolore dell’altro aprendo così il varco alla speranza attraverso cui tenersi per mano senza spaventarsi.

Il turbante azzurro (EDB) è la testimonianza di una donna che ha vissuto la dolorosa esperienza del tumore al seno e che scrive, riprendendo in mano i suoi vecchi diari, a un suo amico sacerdote al quale racconta il suo vissuto e dal quale cerca consolazione. Il sacerdote partecipa al dolore della donna che mettendolo in parola, lo ri-legge per sé e ne fa dono. In qualche modo anche don Roberto, pur avendo a suo tempo seguito le vicende dell’amica, è chiamato, rispondendole, a rileggerle e rimeditare la visione cristiana del dolore alla luce di questa testimonianza.

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Pixabay.com/Public Domain

«Mio caro Roberto, mai mi hai perso di vista in questo lungo tempo; gli eventi ti sono noti e molto abbiamo parlato: di cose, episodi, persone, dubbi, conferme, ripromettendoci un giorno, quando fosse venuto il momento giusto, di ripercorrere il cammino e dare forma ordinata a tanti ricordi, a tante riflessioni, a tante emozioni e, chissà, magari farne
dono. Penso che ora sia il momento giusto. Rileggo i miei diari, cui quotidianamente e da tanti anni affido il libero fluire dei miei
pensieri. Non è indolore, ma mi aiuta a ricostruire, a scrivere e, soprattutto, a ri-scrivere».

“Cara Beatrice, hai certamente ragione quando dici che è venuto il momento giusto. (…)Perché questa nostra scrittura non è altro che un dono(…) Ma c’è un altro dono in gioco: quello di chi finirà per leggerci. Forse un amico ammalato a cui tu o io avremo inviato timidamente questo testo per entrare in punta di piedi in un momento così intimo, consapevoli che in queste pagine tutto c’è fuorché una soluzione».

La storia della malattia di Beatrice, moglie e madre di due figli, come spesso avviene comincia quando il suo medico, durante una normale visita di controllo, le diagnostica un tumore al seno. Prima reazione: terrore e paura di morire.

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Pixabay.com/Public Domain

«Del dialogo con i medici ricordo solo la mia domanda sommessa: «Muoio?»(…) I giorni di attesa dell’esito definitivo sono stati i più lunghi e difficili, forse i più bui della mia vita, gli unici in cui abbia provato sulla mia pelle cosa sia la paura di morire».

Immediatamente dopo la notizia Beatrice prova la sensazione di essere stata abbandonata e tradita dal suo corpo: per la prima volta si sente divisa dalla sua carne.

«Cosa mi ha fatto questo mio corpo? Cosa mi sta facendo? Perché mi tradisce così? Siamo stati sempre bene insieme, l’ho rispettato e curato: nessun eccesso, nessun vizio, vita sana, tanta ginnastica e alimentazione attenta(…) Siamo sempre andati d’accordo, io l’ho reputato un dono e per questo mai me ne sono approfittata. Insieme abbiamo generato nuova vita, a questo continuo a pensare: ai miei bambini, il miracolo più grande di cui il mio corpo e io siamo stati capaci. Nuova vita che, desiderata e cercata con amore, si è formata dentro di lui, crescendo bene, senza difficoltà entrambe le volte, dandomi a lungo una sensazione vicina all’onnipotenza quando guardavo quei piccoli esseri, diversi da me, incredula di aver compiuto una meraviglia tanto grande. Questo mio corpo, prodigo e generoso ospite di nuova vita, dà ora asilo a un crudele strumento di morte, nemico spietato nato apposta per uccidere. (…) Ora ho paura del mio corpo, non mi fido più e per la prima volta sento che siamo due e che lui ha preso il sopravvento. Ora è più forte di me, mi domina e io non so reagire e ho paura».

uomo statua
Pixabay.com/Public Domain

Il male provocato dalla scoperta del cancro pare dominarla. Beatrice si sente vulnerabile, incapace di reagire, smarrita e sola. Quando arriva il momento della cura quasi vorrebbe fuggire pur di non affrontare il suo “calvario”. Ha la grazia però di avere accanto il suo sposo, un tronco saldo a cui aggrapparsi:

«Ricordo fortissima la tentazione di scappare, gridare che «Va bene, mi sono prestata allo scherzo, ma basta, è ora di finirla!» (…) Solo la presenza forte di mio marito, la sua innata e straordinaria potenza rassicurante mi persuade a restare nell’unico luogo possibile per me e a cominciare l’interminabile sequenza di colloqui ed esami(…)».

La solitudine in cui il dolore la rinchiuderebbe viene scongiurata dalla vicinanza dei familiari. Beatrice in una delle lettere dedica parole piene di gratitudine alla sua famiglia, che le è stata sempre accanto fino alla guarigione e su cui ha potuto fare totale affidamento. Il sentimento d’amore per i propri cari e soprattutto quello viscerale ed incondizionato di una mamma per i figli, fanno accadere fatti straordinari. Beatrice è nutrita da una forza misteriosa che, alimentata dalle preghiere di tutti coloro che le vogliono bene e con il sostegno del marito, le dà la forza di raccontare ai suoi piccoli con sincerità, paura e un pizzico di fantasia, la verità sulla sua malattia.

donna calva
Pixabay.com/Public Domain

“La sicura perdita dei capelli mi forza a parlare chiaramente con i bambini, ai quali, fino ad allora eravamo riusciti a raccontare la storia senza intitolarla con la parola “tumore” che per loro, per tutti forse, fa subito rima con morte. (…) Non so come, stiamo parlando di deserto e comincio a raccontargli la storia di Lawrence d’Arabia e del suo bellissimo turbante azzurro e scivolo discretamente nel discorso(…) con grande naturalezza riesco a dire che, sì ho avuto un tumore che prima non era stato riconosciuto come tale ma che ormai è tolto; la cura mi serve perché non mi venga mai più; mi alzo, prendo dall’armadio una delle mie lunghe sciarpe, confeziono davanti allo specchio un bel turbante e rientro in cucina come una star: grande consenso e grande divertimento, i bimbi subito si entusiasmano e vogliono provare… e finiamo il nostro pranzo sfoggiando quattro bellissimi turbanti (…) Ricordo quel pranzo come uno dei più belli e importanti della nostra famiglia dal quale ho tratto una forza bellissima”.

Donna con foulard
Pixabay.com/Public Domain

Attraverso l’amore dei propri cari e la grazia di Dio è accaduto il vero “miracolo”, non solo rappresentato dall’agognata guarigione, ma soprattutto quello di non essersi abbandonati nella malattia alla disperazione, di non aver perso la speranza.

“Rifletto molto in questi giorni sulla speranza e penso che sia la virtù che più sa compromettersi con l’uomo. “Questa virtù – leggo in uno dei libri (…) non è una virtù come le altre. […] Quando tutto scende, solo lei risale e così le doppia, le altre virtù, le decuplica, le allarga all’infinito”. Il peccato contro la speranza mi sembra davvero il più grave e crudele(…) Penso che si guarisca un malato infondendogli speranza, penso che, con la speranza, si cresca un figlio, si coltivi un fiore, si costruisca una famiglia, si ami un amico, si cambi il mondo”.

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