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In cosa noi cristiani siamo diversi da chi non crede?

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padre Carlos Padilla - pubblicato il 11/02/16

Risponde un cittadino del II secolo stupito da un nuovo gruppo: “Vivono nella loro patria, ma come forestieri...”

In che modo Gesù rende diversa la nostra vita? Dov’è il sacro, dove sono i miracoli in una vita semplice apparentemente nascosta e silenziosa? Forse non viviamo come tutti? Non facciamo le stesse cose che fanno tutti? Non amiamo le stesse cose?

Lo diceva già una lettera del II secolo indirizzata a un certo Diogneto: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale”.

È vero. Viviamo dove vivono gli altri, e come loro. A volte vorremmo essere diversi, vivere in altri luoghi.

Ad alcune famiglie cristiane piacerebbe vivere in uno stesso paese, per curare la vita di Cristo tra loro. Proteggendosi un po’ dal mondo, che a volte sembra tanto ostile.

Ma mi piace pensare che essere cristiano è vivere in mezzo al mondo, nelle città di tutti, con un linguaggio comune. Può essere allora che mi piacciano le cose che piacciono ad altri. Lo stesso lago, la stessa barca. Le stesse realtà, gli stessi sogni.

Può essere che ci schiavizziamo con le stesse cose e dipendiamo dagli stessi amori. Che guardiamo gli stessi film e ci preoccupino cose simili. E allora in cosa ci distinguiamo da quelli che non credono a niente?

Prosegue la lettera: “Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita”.

Questa descrizione dei primi cristiani mi commuove sempre. La rileggo e mi rallegra tanto il fatto di essere cristiano, di essere di Cristo, di vivere per Lui. Ma a volte mi sento tanto lontano da questo ideale. Temo che essere del mondo mi faccia vivere come tutti, senza differenze.

Non voglio dimenticare che sono cittadino del cielo, qui sulla terra. Voglio che Gesù venga sulla mia barca ogni mattina per invitarmi a prendere il largo, e mi ricordi che ho nell’anima inscritta la promessa di pienezza, la speranza di una pesca miracolosa, di un mare senza coste, profondo, di un sogno eterno che supera le mie giornate negative.

Non voglio dimenticare che Dio mi ha creato per lasciarmi la vita tra gli uomini, come Lui, ogni giorno. Amando ciò che Dio mette sul mio cammino senza smettere di guardare oltre, al largo, trascendendo la vita caduca che mi viene offerta.

Sogno un mondo più pieno in cui amerò con l’amore di Cristo. Sogno di vivere in base alle regole del mondo, ma sapendo che le norme che mi importano davvero sono quelle di Dio nell’anima.

A volte potrò pensare che non faccio abbastanza con le mie povere reti nel mio tentativo costante di cambiare il mondo. Guarderò la mia vita con nostalgia desiderando che sia più piena di vita. Può essere.

Ma torno a guardare Gesù e so che Lui ha vissuto solo tre anni da una parte all’altra compiendo miracoli, curando, parlando di misericordia. E trent’anni li aveva trascorsi in una santa routine in famiglia.

Penso che Gesù voglia che la mia routine sia sacra. Le mie reti e la mia barca. Che mi stupisca ogni giorno di nuovo di fronte a gesti che ripeto ogni mattina, gesti integrati nell’anima. Gesti semplici che a volte non valorizzo perché ormai mi appartengono. Gesti che sono di Dio in me, anche se non me ne rendo conto.

Gesù vuole che io prenda la mia vita con stupore sapendo che è la stessa che ho lasciato la notte scorsa, il mese scorso, l’anno passato. Con la gioia della quotidianità.

Può essere che a volte con la mia fretta e la mia superficialità trascuri le fonti che alimentano la mia anima. Lascio allora da parte quei pozzi profondi ai quali mi sono abbeverato per tanto tempo. Li dimentico, e a volte si seccano.

E divento ancora più impaziente nei confronti della vita che conduco. E cerco nuove fonti pensando che quelle vecchie non mi diano più vita. E corro il pericolo di non essere fedele alla mia storia, alla mia vita sacra. Per questo non sono sicuro che cambiare sia necessariamente una cosa da saggi.

Voglio cambiare solo se Dio me lo chiede chiaramente. Cambiare per cambiare non mi sembra la cosa più opportuna.

Credo che la santità sia una cosa quotidiana e semplice. Non so perché alcuni hanno la mania di voler lasciare un testamento spirituale al mondo, opere che siano riconosciute, pesche miracolose da ricordare.

La routine della pesca quotidiana sembra insignificante, ma vale la pena di pescare e di affannarsi tutto il giorno cercando di ottenere qualcosa. Di fare e disfare, di lottare fino a lasciarci la vita. Non importa tanto il frutto finale. Importa la mia dedizione generosa, silenziosa.

Credo in quel desiderio di essere più felice, più libero, più pieno, ma la vita non si migliora semplicemente cambiando le cose che disturbano. Si migliora davvero cambiando l’atteggiamento dell’anima di fronte alle cose e alle persone che mi costano. Lo sguardo conta.

Penso a tanti cristiani che hanno vissuto nella stessa terra, in questo stesso mondo senza essere del mondo. E hanno vissuto tutto in modo diverso. Penso di poter fare lo stesso. Gettare radici senza smettere di pensare al cielo. Amare la terra senza smettere di amare Dio in essa. Perdere la vita sapendo che la vita che ho sempre è eterna.

Mi chiedo di nuovo: in cosa mi distinguo da quelli che non credono a niente?

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Mi piacerebbe distinguermi nelle cose importanti. Nel mio modo di amare e di essere amato. Nel mio modo di offrirmi ogni mattina. Nel mio modo di affrontare le contrarietà, l’insuccesso e la perdita.

Vorrei essere diverso nel modo di guardare al prossimo. Guardare con misericordia, accogliendo, nobilitando. Guardare senza giudicare, senza condannare, senza disprezzare.

Vorrei essere più grato e più generoso verso la vita che conduco, verso la mia barca vecchia e stanca, verso le mie reti rotte, verso i pesci che pesco ogni giorno. Vorrei arrivare alla sera pieno di speranza. Felice di condurre la vita che vivo. Disposto a svegliarmi un altro giorno con l’animo pieno di fuoco e di passione per la vita.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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