C’è un corto poco conosciuto, nominato al Premio Oscar, che ha attirato l’attenzione non solo per l’argomento trattato, quanto soprattutto per il suo messaggio.
Il regista Basil Khalil ha pensato a una soluzione intuitiva per il conflitto mediorientale, basandosi sulla premessa che sia gli ebrei israeliani che i palestinesi potrebbero collaborare se la cooperazione fosse l’unico modo per allontanarsi gli uni dagli altri.
Khalil, nato a Nazareth da padre palestinese e madre inglese, illustra questa tesi nel suo film di 15 minuti, Ave Maria, che è tra i cinque finalisti per l’Oscar al miglior cortometraggio.
Nella scena di apertura una famiglia ortodossa avanza verso il proprio insediamento in Cisgiordania: il corpulento e barbuto Moshe, accompagnato da sua madre Esther – una donna dalla lingua tagliente – e dalla moglie Rachel.
Lo Shabbat sta per iniziare in un clima di tensione e fretta, causata – secondo Moshe – dall’incontinenza di sua madre.
Moshe guida in modo distratto e colpisce di striscio una statua della Vergine Maria – situata di fronte a un piccolo convento – facendola cadere dal piedistallo. Nel convento vivono cinque monache carmelitane, le Sorelle della Misericordia, che hanno fatto voto del silenzio.
Dal convento mandano una monaca novizia a investigare sull’accaduto. Quando quest’ultima rientra, inizia a gesticolare in modo nervoso e agitato, per poi rompere il suo voto di silenzio esclamando: “Gli ebrei hanno violato la Vergine”.
Nel frattempo si è fatta tarda notte del venerdì. Le monache dispongono di un vecchio telefono a disco, ma nessuno è in grado di utilizzarlo: Moshe non può usare il telefono perché altrimenti violerebbe le norme sul sabato e le monache, naturalmente, non possono pronunciare parola alcuna.
E così, con le suore che provano a capire come sbarazzarsi dei loro ospiti indesiderati e con la famiglia ebrea che tenta disperatamente di congedarsi, l’antipatia aguzza l’ingegno.
[Traduzione dallo spagnolo a cura di Valerio Evangelista]