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Cosa lascerò su questa terra quando non ci sarò più?

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© Esparta Palma / Flickr / CC

padre Carlos Padilla - pubblicato il 08/02/16

A volte una vita comune non sembra sufficiente...

Credo che a volte nella vita possiamo guardare indietro e chiederci il senso di tutto ciò che abbiamo vissuto. Possiamo sentire di aver perso tempo o di non aver raggiunto quelle mete che ci proponevamo da giovani. Ci scoraggiamo e smettiamo di rallegrarci per tutto ciò che abbiamo.

A volte pensiamo che alcuni ucciderebbero per stare dove siamo noi, ma non ci basta. Sentiamo che non è sufficiente, che nulla di ciò che facciamo giustifica tanto sforzo.

Vivremo così, nello stesso modo, gli anni che ci restano da vivere? Arriveremo a novant’anni facendo le stesse cose che facciamo ora? Sono le domande che sorgono spontanee nel cuore di una vita di routine, forse troppo lunga. Forse abbiamo perso la gioia, la speranza, la capacità di sognare.

Diceva Emilio Duró: “La gente che parla di felicità non sorride. Dobbiamo recuperare le emozioni. Tornare a ridere, a piangere, a suonare. Una persona che canta non può essere infelice. Dobbiamo ridare passione alla vita. Dare vita agli anni e non anni alla vita. Tutti si lamentano di tutto. Non ho mai visto nessuno che si dedica ad aiutare gli altri e non sia felice. Non vedo nessuna persona egoista che sia felice. Dobbiamo fare qualcosa per gli altri”.

Possiamo vivere la nostra vita con passione donandoci o guardando noi stessi senza trovare la felicità. Possiamo rallegrarci di quello che abbiamo o vivere lamentandoci di ciò che ci manca. Valorizzando il presente come un grande dono o sentendo che la vita ci deve qualcosa.

Credo che Gesù ci abbia insegnato a vivere la quotidianità come qualcosa di sacro. Trent’anni a Nazareth, tre anni senza un posto in cui posare il capo. Trent’anni amando nel silenzio, nella routine. Tre anni di vita pubblica, donando, amando tutti.

La routine di una vita semplice è sacra. Ce lo ha insegnato Gesù. Ma ci ha detto di amare sempre, di donare sempre. Nel silenzio o nella vita pubblica, non importa. Ma sempre con passione, con gioia, amando, vivendo per gli altri e non pensando continuamente a ciò che ci manca.

Abbiamo la nostra vita, le nostre abitudini. Sono le nostre reti e la nostra barca. Ci dedichiamo alle nostre cose come Pietro, Giovanni e Giacomo. Abbiamo il nostro officio e la nostra vita già stabilita.

Ma tutto sembra troppo semplice. Cosa lasceremo su questa terra quando non ci saremo più? Si ricorderanno di noi?

A volte pretendiamo di lasciare il nostro nome scritto in qualche strada. Di fare qualcosa di memorabile che valga la pena. Di lasciare pagine scritte che ci ricordino in molti cuori. Figli, alberi, canzoni, opere. Non so.

L’anelito all’eternità è inciso nella nostra anima. Il mare profondo ci chiama con quella voce che ci evoca l’infinito. Una chiamata che ci spinge a non vivere una vita senza senso.

È vero, non possiamo negarlo, in ogni cuore c’è il desiderio di continuare a vivere quando non vivremo più. Di continuare a stare in altri cuori, in altre vite, quando non saremo più nella carne. Il desiderio inconfessabile di navigare mari eterni vincendo la paura dell’abisso che abbiamo tutti.

Per questo a volte una vita comune non ci sembra sufficiente. Vogliamo di più. Sogniamo di più. Le nostre reti ci sembrano povere, come le nostre opere.

E solo pensare che dovremo ricucire e gettare continuamente le nostre reti per anni ci inquieta. Navigare vicino alla riva con la nostra povera barca. E pescare pochi pesci.

E realizzare opere di poco conto, sempre le stesse. Senza aver mai spiccato in nulla di importante. Senza aver raggiunto una pesca miracolosa, qualcosa che sia degno di essere raccontato.

Ci spaventa quell’abisso della semplicità, della routine, del silenzio, del tempo cadenzato che ci conduce per mano fino all’ultimo giorno della nostra vita. È una paura inconfessabile che tutti portiamo in noi. La paura di non vivere davvero, in pienezza.

La paura di perdere tutto nel tentativo di amare con tutta l’anima. La paura di non riuscire ad amare pienamente, con un amore eterno. E di non essere amato con lo stesso amore eterno. Come vinciamo quella paura?

Diceva Steve Jobs: “Se ogni giorno ti guardi allo specchio e pensi ‘Oggi può essere il mio ultimo giorno’, un giorno indovinerai”.

La paura della morte, di non lasciare nulla quando ce ne saremo andati, si supera se viviamo ogni giorno nel presente. Se viviamo sospesi in quell’ora in cui Gesù viene sulla mia barca e mi chiede di rischiare di più, di amare più profondamente, di lasciare tutto.

Si gioca qui e ora. Sapendo che un giorno non ci saremo più. Si gioca in questo istante sacro in cui posso dire “sì” a Dio con tutta l’anima e allontanarmi taciturno cercando il mio riposo.

Si gioca quando accetto che tutto ciò che ho davanti riposa solo in Dio.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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