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I tormenti di una figlia adottata alla ricerca dei suoi genitori biologici

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Pixabay.com/Public Domain

Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 06/02/16

Mentre in Italia manca ancora una legge ad hoc, la Corte Europea dei diritti dell'uomo le ha dato ragione

Questa storia dimostra che al di là di ogni tentativo di cancellare il passato, la voglia di conoscere le proprie origini, prima o poi, prevale. E in tempi di stepchild adoption – pensando che attraverso questo strumento un figlio possa essere adottato e crescere amorevolmente con due padri o due madre “mascherando” la sua identità biologica – è ancora più emblematica.

Ce lo dice Anita Godelli, una signora di Trieste. «Sono la persona che con ostinata caparbietà – spiega ad Avvenire (5 febbraio) – è ricorsa alla Corte europea dei diritti dell’uomo per ottenere un diritto che mi era stato precluso, quello, essendo stata adottata, di conoscere le mie origini biologiche».

LA SENTENZA DELLA CONSULTA

La Corte ha emesso sentenza favorevole il 25 settembre 2012 – sentenza ratificata dalla Corte costituzionale italiana il 18 novembre 2013. Alla sentenza è seguita una proposta di legge per sancire le modalità di applicazione di tale diritto (la conoscenza delle proprie origini biologiche) passata alla Camera dei Deputati e in attesa di approvazione al Senato della Repubblica.

“NON ERO UNA PERSONA NORMALE”

La storia di Anita inizia a Trieste durante la Seconda Guerra Mondiale. Una donna resta incinta di due gemelle e, partorendole, decide di non riconoscerle. Ignota lei, ignote le motivazioni della sua scelta. Le bambine vengono affidate a due famiglie diverse.

Ad Anita, che è una delle due gemelle, finisce in mano, chissà come, il proprio atto di nascita quando ha appena compiuto sei anni. «Ero figlia di NN», spiega lei oggi, «da allora non posso classificarmi come una persona normale, ammesso che esista la normalità» (La Stampa, maggio 2012).

LA CONFESSIONE DEL NONNO

«Mio nonno, il padre della mia mamma affidataria, me lo confermò in punto di morte e mi disse anche che avevo una sorella gemella. Da allora è iniziato un lungo periodo di ribellione interiore. Ho dovuto mettere la mamma affidataria con le spalle al muro per farle dire la verità».

Accade a un certo punto che la madre della gemella di Anita si metta in contatto con la sua famiglia per questioni di ordine sanitario. Le due bambine diventano amiche. «Lei, la mia gemella, non sapeva di esserlo. Ci mettevano di fronte a uno specchio e ci dicevano che sembravamo proprio sorelle. Ma noi lo eravamo! A me pareva una perfidia».

LA ROTTURA CON LA GEMELLA

Il tempo passa, la cosa viene a galla e, progressivamente, i rapporti tra Anita e sua sorella si guastano. «Dopo che la mia gemella ha scoperto la verità ci hanno messe l’una contro l’altra. Ma queste persone bene o male sono state i miei parenti per tutta la vita. Non ho mai cercato i miei genitori naturali per rispetto verso di loro. Poi, alla morte di entrambi, ho iniziato le ricerche».

Dai qui i ricorsi alla Giustizia. E dopo le sentenze positive, il giudice ha dato l’input ai carabinieri di Trieste di cercare negli archivi per rispondere alla domanda della signora Godelli. Era il 23 luglio del 2014. Da allora ancora nessuna novità sulle sue origini.

“LA MATERNITA’ ANONIMA E’ UN ERRORE!”

«Espongo tutto ciò – commenta Anita – perché seguo con profonda angoscia l’iter parlamentare sull’adozione da parte delle coppie omosessuali, perché sono sicura che qualsiasi legge verrà varata, si troverà il modo di aggirarla al fine di ottenere maternità o paternità con metodi assolutamente anonimi, precludendo così ai bimbi e futuri adulti un’identità ben precisa. Ho lottato per lunghi anni per spalancare una porta che sembrava definitivamente chiusa per me e per le tante persone che si trovavano nelle mie stesse condizioni, per veder vanificato tutto?»

“IL FIGLIO NON E’ UN GIOCATTOLO!”

Anita dice senza peli sulla lingua che vorrebbe confrontarsi «con qualcuno degli esponenti di queste teorie create sulla pelle altrui, cariche di (falsi) buoni sentimenti che trattano l’argomento con il senso del diritto (proprio) e del conseguente possesso dei bambini-figli come oggetti, senza tenerne in conto dignità e personalità, come se si trattasse di giocattoli creati ad hoc per soddisfare le proprie pulsioni». Perché in fin dei conti, è semplice sbandierare disegni di legge e demagogia quando le cose non si vivono sulla propria pelle.

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