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Perché nell’Atto di dolore si parla dei «castighi» di Dio?

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Toscana Oggi - pubblicato il 05/02/16

Una domanda su un'espressione della formula più usata al termine del Rito della Penitenza

Nell’Atto di dolore si dice «mi dolgo dei miei peccati perché ho meritato i tuoi castighi…» Quali sono i castighi di Dio? E come può un Padre misericordioso assegnare castighi all’uomo? La parabola ci insegna che quando il «figliol prodigo» torna a casa non viene punito per aver dilapidato il patrimonio paterno, ma accolto con una grande festa.

Filippo Nesti

La domanda merita una risposta articolata. La formulazione tradizionale dell’atto di dolore può anche non piacere e lo stesso Rito della penitenza prevede ben altre nove possibili alternative più semplici e ispirate alle parole dei salmi o dei vangeli. Per esempio, la più concisa dice: «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore». Certo, poi, il rifermento ai castighi può suscitare imbarazzo in alcuni fedeli. Ma non è un fatto nuovo: se ben ricordo quando ero piccolo – e parlo di circa cinquant’anni fa – mi era stata insegnata una versione edulcorata dell’atto di dolore che ometteva il riferimento.

Non nego che talora, la catechesi, la predicazione e la stessa prassi della confessione, possano avere veicolato una visione distorta e terroristica dei castighi di Dio col rischio di far perdere all’annuncio del vangelo la sua qualità di essenziale di «buona notizia». Su queste problematiche appaiono opportune e illuminanti le considerazioni offerte da papa Francesco nella Evangelii gaudium, nella Misericordiae vultus, nei suoi interventi al Sinodo e, soprattutto, nel suo magistero quotidiano.

Premesso questo bisogna anche dire che l’affermazione «ho meritato i tuoi castighi» non è scorretta da una punto di vista teologico e a antropologico e, se ben compresa, risulta infondo un’esaltazione della misericordia di Dio. Proprio la parabola del figlio prodigo ci fa comprendere questo: quando il figlio ritorna è consapevole non di meritare altro che di essere trattato come l’ultimo dei servi, ma il padre lo sorprende non solo reintegrandolo come figlio, ma addirittura facendo festa. Se il figlio si fosse presentato invece con la pretesa arrogante di essere riaccolto senza neanche scusarsi, ignorando la gravità di quello che aveva fatto, che tipo di reazione ed emozione susciterebbe in noi la parabola? Probabilmente la percepiremmo come una deprimente affermazione della «banalità del male».

Dire «ho meritato i tuoi castighi» può in fondo significare semplicemente che nel sacramento della riconciliazione vogliamo metterci di fronte alla misericordia del Padre con umiltà, senza arroganza e senza presunzione, proprio come il figlio della parabola, consapevoli che il perdono di Dio non è un atto dovuto, lasciandoci sorprendere ogni volta dalla misericordia divina.

Si tratta in sostanza di elaborare la consapevolezza che il peccato è un male serio perché, proprio come era successo al figlio prodigo, ci separa e ci allontana da Colui che ci ama ed è la sorgente della nostra vita.

A partire da quest’ultima considerazione si può giungere a riconoscere che il peccato, in sé e nelle sue conseguenze, è in fondo già castigo a se stesso nella misura in cui ci separa da Dio. Il percepire questo e lo sperimentare tutto il malessere che ne può derivare è, se ci pensiamo bene, un’autentica grazia di Dio che ci aiuta a rimetterci, proprio come il figlio prodigo, in cammino per ritrovare la strada di casa, ovvero per ritornare in comunione con il Padre, sorgente della nostra vita e della nostra gioia. E, se possiamo riconoscere nella percezione delle conseguenze negative dei peccati una grazia che ci aiuta a svegliarci dalla nostra improvvida presunzione, potremmo anche giungere ad intendere l’affermazione «ho meritato i tuoi castighi» come un’espressione di gratitudine al Dio della grazia, che non resta indifferente davanti ai nostri peccati e non ci abbandona alla nostra sorte pur rispettando fino in fondo la nostra libertà.

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