A dieci anni dall’assassinio in Turchia un libro ricorda la testimonianza di fede e dialogo del sacerdote romanoEra in chiesa a pregare con la Bibbia davanti a sé quando l’hanno ucciso. Dieci anni fa, il 5 febbraio 2006, due colpi di pistola alla schiena hanno posto fine a Trabzon, l’antica Trebisonda nel nord-est della Turchia, alla vita di don Andrea Santoro. Un ragazzo musulmano di 16 anni confessò in seguito di aver ucciso il sacerdote romano perché “sconvolto dalle vignette contro Maometto”, ma resta il sospetto, come spiega Augusto D’Angelo, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, nel libro “Don Andrea Santoro. Un prete tra Roma e l’Oriente” (Edizioni S. Paolo), di un rigurgito di nazionalismo dell’estrema destra turca che avverte “una minaccia nell’Europa e nell’europeo”. Don Andrea aveva dovuto insistere molto con i suoi vescovi per essere mandato in Turchia: il progetto era quello di tornare ad abitare, nel segno del dialogo e della convivenza quotidiana, uno dei primi luoghi abitati dai cristiani, la cui presenza, invece, con il tempo si è sempre più affievolita fino quasi alla scomparsa. La “scommessa” era puntare su un Vangelo “disarmato, che proibisce l’odio, l’ira, il dominio” e “attira con amore e non domina con il potere”. Una scommessa che la sua morte non ha sconfitto.
“La morte di don Andrea Santoro – afferma D’Angelo – come la morte di tanti martiri non vuol dire che il cristianesimo finisce. Anzi vuol dire che il cristianesimo è vitale”. C’è un filo rosso che lega la sua morte e quella di altri cristiani uccisi in Turchia negli ultimi anni, come il giornalista armeno Hrant Dink nel 2007 o mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, nel 2010: esse testimoniano “la volontà dei cristiani in Turchia di vivere rappresentando una presenza forte di cristianesimo, cioè debole numericamente, ma forte dal punto di vista della testimonianza. Un voler far sì che il cristianesimo non scompaia del tutto, ma anzi abbia un ruolo all’interno del mondo turco”. E questo in un periodo di forti tensioni, con la guerra in Iraq e quella scoppiata dopo in Siria, ha portato ad avvertire queste presenze “altre” come “fastidiose e in fondo, a fronte di un nazionalismo turco che si è riacceso in maniera violenta, sono state colpite a morte”.
Oggi un calice e una patena appartenuti a don Andrea Santoro sono custoditi nella basilica di san Bartolomeo all’isola Tiberina, a Roma, la chiesa che san Giovanni Paolo II ha affidato nel 2000 alla Comunità di sant’Egidio perché vi fossero conservate le memorie dei martiri del XX secolo. Anche don Santoro può essere considerato un martire del nostro tempo?
D’Angelo non ha dubbi: “Ritengo che per come è morto don Andrea, inginocchiato, con la Bibbia in mano, in chiesa, con due colpi sparati dall’ingresso della schiena che lo hanno colpito alla schiena sia un martire. E’ il martire di un cristianesimo che predica la convivenza in un mondo che fatica ad accettare l’altro e quando un mondo, per nazionalismo o estremismo islamico, non accetta l’altro si avvita in una spirale che in fondo diventa totalitaria, in cui tutti devono essere in un solo modo”. La presenza da cristiano di don Santoro, “quasi in solitaria in quelle terre”, voleva invece dire che: “I turchi devono considerare di vivere con l’altro e in fondo conviene anche ai turchi in un’età di globalizzazione perché è impensabile che in un’età come questa si possa essere puramente se stessi senza un confronto con gli altri”.
Don Santoro teneva molto a rappresentare in Turchia il segno della Chiesa di Roma a cui apparteneva. A distanza di dieci anni dalla scomparsa “la vita di don Andrea – sostiene D’Angelo – continua ad interrogare”. “Don Andrea – spiega l’autore della biografia del sacerdote – era parte di una generazione di cristiani cresciuti durante il Concilio e che avevano riscoperto il Vangelo e le radici del Vangelo in Oriente. Innamorati dell’Oriente anche per questo. Un’attenzione che con la morte di don Andrea non è calata”. I drammi della Siria e del Medio Oriente in generale rendono ancora più evidente che: ”lì c’è una radice profonda del nostro essere cristiani”. La preoccupazione per ciò che accade in Medio Oriente, per la guerra e la violenza, fanno crescere la sensibilità per la sorte dei cristiani e la necessità di una responsabilità collettiva affinché “il cristianesimo non scompaia e non venga eradicato dalla culla in cui è stato generato”.