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L’Esegesi di Philip Dick

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Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 08/01/16

Esce in Italia la raccolta di appunti di PKD sulla sua esperienza tesa tra misticismo e psicosi

Esce finalmente in Italia l’ultima opera dello scrittore di fantascienza Philip Dick: “L’Esegesi” (Fanucci), noto al grande pubblico perché dal suo romanzo è stato tratto il celebre “Blade Runner“. Ma Esegesi non è un romanzo, ma l’edizione revisionata, condensata e sistematizzata ad uso del lettore, di oltre 8000 pagine dattiloscritte dallo stesso Dick, in diversi anni, che hanno come oggetto la natura della realtà e la sua percezione, la malleabilità dello spazio e del tempo, il rapporto tra l’umano e il divino. Questa lunga e laboriosa riflessione di uno degli autori nordamericani più importanti della seconda metà del ‘900 è il frutto di una esperienza che lo stesso PKD (Philip K. Dick, ndr) non saprà mai definire compiutamente e di cui sospetterà per tutti gli anni successivi, otto per la precisione, fino alla sua morte per infarto.

Il libro contiene i tentativi di Dick di esporre e spiegare un’esperienza visionaria cominciata proprio tra il febbraio e il marzo 1974 (da qui quel “2-3-74” che ricorre nell’opera). L’esperienza avrebbe avuto inizio dopo un intervento dentistico di asportazione di due denti del giudizio. Dick avrebbe notato un ciondolo al collo della ragazza della farmacia che gli aveva portato gli antidolorifici, scoprendo che si trattava dell’Ichthys, il simbolo protocristiano del pesce, acrostico che indica Gesù Cristo Salvatore Figlio di Dio , in greco.

In quell’istante, fissando il luccicante simbolo del pesce e ascoltando le sue parole, ho sperimentato quella che come poi ho saputo chiamarsi anamnesi, una parola greca che letteralmente significa “perdita della dimenticanza”. Ho ricordato chi ero e dov’ero. In un istante, un battito di ciglia, mi è tornato tutto alla mente. E non potevo solo ricordarlo, potevo vederlo. La ragazza era stata una segreta cristiana, e anche io lo ero. Avevamo vissuto prigionieri dei Romani. Dovevamo comunicare con segni segreti. Lei mi aveva appena detto queste cose, ed era tutto vero”. (Fantascienza.com, 19 novembre 2015).

Le paure, le ossessioni, le paranoie, le riflessioni, i deliri di grandezza e la disperazione di Dick fuoriescono da questo tentativo filosofico titanico di comprensione di un fenomeno che secondo le categorie interpretative del nostro universo linguistico e concettuale moderno può essere definito solo da due parole-chiave: “illuminazione” e “psicosi”. Lo stesso Dick non avrà mai chiaro se quello che visse e percepì con così grande chiarezza fosse l’effetto delle droghe di cui abusava regolarmente, oppure – effettivamente – un procedimento di illuminazione che ricorda moltissimo lo gnosticismo cristiano dei primi secoli. Vivere con la contemporanea consapevolezza che quello che si è vissuto potrebbe non essere reale e avere la fortissima certezza di avere avuto una esperienza veritativa, di rivelazione.

Da questa esperienza nasceranno diversi importanti suoi lavori, successivi al 1974 che per PKD diventerà una data spartiacque che definisce un prima e un dopo nella sua vita e attraverso cui rilegge tutte le sue opere precedenti come funzionali alla rivelazione del “2-3-74”.

Dick stesso si trovò, nel suo tentativo di spiegare e di spiegarsi la propria esperienza, sospeso su questo fragile ponticello teso tra illuminazione e psicosi. Di questa oscillazione tra due poli recano traccia molti luoghi delle Exegesis: qui spesso trovano spazio, giustapposte, due consapevolezze incompatibili, ma al contempo paradossalmente coesistenti: la consapevolezza tutta moderna – oggettiva – di non poter fare altro che ascrivere a un disturbo psichico esperienze di un certo tipo, e la certezza soggettiva del valore veritativo della propria regressione all’epoca della tardoantichità. Psicosi e illuminazione. Contro la logica dualista – bianco o nero, si o no, vero o falso, giusto o sbagliato, innocente o colpevole – su cui si fonda tutta l’onto-logica occidentale, l’esperienza di Dick si pone su di un piano di impossibile compresenza. La tragica consapevolezza di questa composizione di realtà contraddittorie attraversa tutto il corpus delle Exegesis dickiane. Ed è forse alla ricerca di una soluzione di questo dualismo espressivo che Dick ha elaborato una duplice risposta ai propri interrogativi esistenziali: da un lato la messa in forma narrativa della propria esperienza, attraverso la scrittura di romanzi profondamente legati al Marzo ’74 (che diventeranno poi la trilogia di VALIS, l’ultima grande opera di Dick), dall’altro la continua autoesegesi privata, durata fino alla morte. Ancora una volta: i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo (Doppiozero.com, 4 gennaio).

E ancora:

Dick, per spiegare e per spiegarsi la propria peculiare esperienza, si riferisce in più punti della sua produzione letteraria ad un frammento del filosofo greco Eraclito, che recita: «La trama nascosta è più forte di quella manifesta». Il mondo che noi tutti vediamo, e in cui viviamo, sarebbe dunque solo un mondo apparente, un flusso illusorio, che cela la trama nascosta, quella vera, “più forte”, ma al contempo nascosta ai più. È questa la struttura del paradossale universo di VALIS: un universo in cui a una realtà immobile, immutabile, “più forte” e più vera, fa da schermo il mondo allucinatorio di un caleidoscopico divenire. È in questa struttura che possono andare paradossalmente insieme Eraclito e Parmenide, il divenire e l’essere, spesso accostati nel corpus delle Exegesis: immutabilità dell’essere ed eterno fluire vengono accostati in una costruzione monista, in cui il divenire è reale in quanto allucinatorio mondo in cui tutti viviamo, e al contempo è reale l’immutabilità dell’essere, ferma, atemporale, al di sotto del velo eracliteo. Ed è in questo universo profondamente monista, ma da cui non è affatto escluso il cambiamento, che ha luogo Il Vangelo secondo Dick. Questi si inserisce in questo universo in qualità di profeta, seguendone però le leggi messianiche del tutto peculiari: una rivelazione che si afferma nel rimanere nascosta, nel non affermarsi, nel non divenire universale religione aperta a tutti; questa è la «debole forza messianica» della rivelazione dickiana, per utilizzare una bella espressione di Walter Benjamin (Doppiozero.com).

Il cuore della rivelazione del “profeta-apostolo” PKD, su cui gli appunti riordinati di Esegesi non fa che insistere e riflettere è che: “L’umanità sarebbe una minuscola parte di un macro-organismo simile a un “sistema di intelligenza artificiale autoriparante”, di cui noi rappresenteremmo disgraziatamente una sottosezione “caduta sotto il livello di trasferimento dei messaggi”, una “bobina di memoria malfunzionante: addormentati, e in un quasi sogno, noi non siamo dove (e quando?) crediamo di essere”.

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Secondo Dick percepiremmo insomma a stento una realtà che – se solo si riuscisse a riparare il guasto di ricezione – ci libererebbe da un maligno giogo millenario, restituendoci all’originaria condizione di pace, felicità e concordia universale. Si tratta di una posizione che gioca di sponda con lo gnosticismo cristiano dell’antichità, per come almeno poteva rielaborarlo un geniale autodidatta che si documentava sull’Enciclopedia Britannica e immaginava che nell’America del XX secolo il Deus absconditus potesse tranquillamente annidarsi anche in una bomboletta spray (Repubblica, 27 novembre 2015).

E di nuovo la domanda ripetuta a se stesso che lo consuma:

Si era trattato di un brutto viaggio con l’acido o di una bella esperienza con il pentothal? Dick era pazzo? Psicotico? Schizofrenico? (Scrive: «La schizofrenia è un balzo in avanti che non è riuscito»). Le visioni erano semplicemente l’effetto di una serie di convulsioni cerebrali, o crisi di epilessia dei lobi temporali? Possiamo ora spiegare e archiviare le esperienze visionarie di Dick con qualche più aggiornata teoria neuro-scientifica sul cervello? Forse. Ma il problema è che queste spiegazioni meccaniche non colgono la ricchezza dei fenomeni che Dick cercava di descrivere e rischiano di trascurare il suo particolare modo di descriverli. […] In un’annotazione verso la fine di Exegesis, dice: «Sono un filosofo che scrive narrativa, non un romanziere». Poi aggiunge: «Lo scopo del mio scrivere non è l’arte, ma la verità». Sembra un paradosso, dato che la ricerca della verità, il classico obiettivo del filosofo, non è qui vista in opposizione alla narrativa, ma è essa stessa un’opera narrativa. Dick considerava la sua attività di scrittore di romanzi un tentativo creativo di descrivere quella che a lui appariva la vera realtà. Dice ancora: «Sono sostanzialmente analitico, non creativo, la mia scrittura è semplicemente un modo creativo di condurre l’analisi» (Corriere della Sera, 16 febbraio 2012) .

Di certo non vogliamo suggerire nulla sulla veridicità o meno di questa esperienza personale che ha accompagnato la riflessione di PKD e che ne ha proiettato l’identità nei martiri perseguitati dai romani nel I secolo. Sappiamo solo dell’inesauribile desiderio dell’autore di comunicare con se stesso e i lettori la sconvolgente esperienza di rivelazione di una realtà superiore, di una presenza accogliente, Dio appunto, che egli ha saputo descrivere con i propri mezzi, immaginifici e totalizzanti, del romanzo di fantascienza. Philip Dick è stato senza dubbio un geniale anticipatore del nostro futuro presente. Come quando scrive, a pagina 88, «La coesione è ciò che il nostro mondo moderno ha perso, a tutti i livelli. Adesso siamo tutti compartimenti stagni. C’è una piccola parte del macrocosmo dentro di noi e questa piccola parte di microcosmo equivale all’intero universo. Il microcosmo contiene il macrocosmo, un altro concetto non pensabile in forma logica. Il Dio dentro di me vede il Dio che c’è fuori; entrambi comuni l’uno all’altro, connessi attraverso la carne. Così Egli, o Esso, non importa, si è reso visibile qui sulla terra. Nel frattempo, Satana fa la fila da McDonald, ordina un Hamburger e un frappè di plastica, illudendosi di mantenere il suo potere». Mentre Dick vuol far cadere il velo che acceca il mondo, nelle pagine finali disvela il proprio, quando a pagina 553 ammette che «Tutti gli artisti sanno di non poter fare a meno di soffrire, e, per questo, forgiano la loro arte nella sfida. Che siano artisti o no, soffriranno. L’arte è l’ultima sfida del Fato». Una lettura, quella della trilogia di Valis o del romanzo Ubik, che consigliamo, alla luce di questa poderosa Esegesi che prova a spiegare Dio con parole e immagini, uno sforzo simile (sebbene al contrario) a quello di Nietzsche che – per un paradosso che lo renderebbe fuorioso – è il più cristiano dei filosofi moderni, così per certi versi, Dick è tra gli scrittori più compiutamente cristiani del XX secolo…

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