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Il Vescovo Semeraro e i sacramenti ai divorziati risposati: la regola del caso per caso

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Jeffrey Bruno/Aleteia

Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 26/12/15

In un saggio cita un documento della Congregazione per la dottrina della fede del 1973 che invita ad applicare «l’approvata prassi della Chiesa in foro interno» riproposta nell’ultimo Sinodo sulla famiglia

La relazione finale dell’ultimo Sinodo sulla famiglia, al paragrafo 85, com’è ormai noto, parla di «accompagnamento» e di «discernimento» a proposito dei divorziati risposati, essendo evidente che storie e situazioni non sono tutte uguali. Nel documento non si parla esplicitamente di accesso al sacramento dell’eucaristia: ciò ha permesso ad alcuni di affermare che in quel testo non esiste alcuna indicazione o via da percorrere per la riammissione caso per caso, ad altri di dichiararsi delusi perché certe proposte di apertura non sono state approvate.

È interessante leggere ora un saggio del vescovo di Albano Marcello Semeraro, intitolato «Il Sinodo della famiglia raccontato alla mia Chiesa» (edizioni MiterThev), con il quale il prelato, che ha partecipato ai lavori sinodali ed è stato tra i relatori del documento finale, comunica ai suoi sacerdoti e ai suoi fedeli l’esito dell’ultima assemblea dei vescovi. Nel saggio Semeraro insiste sul «primato della grazia (che è come dire della misericordia)», il quale «implica l’attenzione primaria alle persone, nella singolarità e non-omologabilità delle loro storie, del cammino di vita di ciascuna, con le sue ferite e le sue miserie, cui sono rivolti gli occhi di Dio. Sono occhi della misericordia, che non guardano prima di tutto alla legge, per giustificare o incolpare, ma alla persona, per curare e sanare».

Il vescovo di Albano, teologo dogmatico, osserva: «Questo passaggio dalla morale della legge alla morale della persona è di fondamentale importanza. A me pare che sia tra le cose più rilevanti di questo Sinodo; fra quelle su cui il Sinodo si è impegnato, facendone così una proposta al Papa. La questione, in breve, non è solo di singole questioni, ma prima ancora d’impostazione della teologia morale». A proposito della riammissione dei divorziati risposati ai sacramenti, Semeraro scrive: «Il Sinodo si è astenuto dal proporre al Papa in forma semplicemente teorica e astratta la questione specifica della possibilità di ammissione ai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia dei fedeli battezzati che vivano coniugalmente in condizione di civilmente divorziati risposati. Ha chiesto di accostarsi alla persona. Non ha, tuttavia, aggirato il problema, ma ha posto le basi per una soluzione già col fatto di avere inserito la questione circa il discernimento d’imputabilità proprio nei numeri che li riguardano direttamente».

Particolarmente interessanti, a questo riguardo, sono le note che corredano l’intervento del vescovo di Albano. In una di queste (32), Semeraro annota: «Sarà chiaro, in ogni modo, che le soluzioni “in foro interno” non sono per nulla identiche alla semplice “decisione di coscienza”, che riguarda esclusivamente il singolo (o, nel caso, la coppia) davanti a Dio; ne vanno, anzi, ben oltre». Per evitare i «rischi sia di una privatizzazione indebita dell’accesso all’eucaristia, sia di un dualismo fra oggettività dottrinale e soggettività morale» risulta «importante, perciò la precisazione che quanto avviene nel “foro interno”, inteso in senso proprio, è un vero processo (“foro”) che si svolge nell’ambito sacramentale (”interno”, ossia nel sacramento della riconciliazione e penitenza) che vede coinvolti un fedele e un ministro autorizzato della Chiesa».


Nella nota successiva (33), il vescovo ricorda che «la soluzione proposta» dal documento finale del Sinodo «è di fatto coincidente con quanto, durante il pontificato di Paolo VI, fu affermato dalla Sacra congregazione per la dottrina della Fede». Il riferimento è alla lettera «Haec Sacra Congregatio» dell’11 aprile 1973 sull’indissolubilità del matrimonio, nel cui paragrafo finale si legge: «Per quanto riguarda l’ammissione ai sacramenti gli ordinari del luogo vogliano, da una parte, invitare all’osservanza della disciplina vigente nella chiesa, e, dall’altra, fare in modo che i pastori delle anime abbiano una particolare sollecitudine verso coloro che vivono in una unione irregolare, applicando nella soluzione di tali casi, oltre ad altri giusti mezzi, l’approvata prassi della Chiesa in foro interno». Questa risposta della Congregazione, approvata da Papa Montini, venne confermata dalla lettera del 21 marzo 1975 inviata dal Segretario dell’ex Sant’Uffizio Jean Jérôme Hamer all’arcivescovo di Chicago Joseph Louis Bernardin, all’epoca presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti.

È interessante notare come nel documento della Congregazione per la dottrina della fede, approvato da Paolo VI, si parli esplicitamente dell’ammissione ai sacramenti per chi vive «in una unione irregolare» e dell’applicazione dell’«approvata prassi della Chiesa in foro interno». Senza però l’aggiunta di ulteriori specificazioni o restrizioni.Chi ritenne di aggiungere la clausola dell’impegno a vivere «in piena astinenza», fino a quel momento assente, fu Giovanni Paolo II, nell’omelia per la chiusura del VI Sinodo dei vescovi (25 ottobre 1980). Com’è noto la stessa clausola venne poi inserita da Papa Wojtyla nel n. 84 dell’enciclica «Familiaris consortio», dove peraltro lo stesso Pontefice riproponeva l’importanza del discernimento delle diverse situazioni, con parole citate anche nel documento finale dell’ultimo Sinodo: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni. C’è infattidifferenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido».

Il vescovo Semeraro ricorda a questo proposito come il teologo moralista Bernhard Häring aveva fatto a suo tempo notare l’origine di quell’impegno a vivere in astinenza. «Nella prassi preconciliare – scriveva Häring nel 1990, nel suo libro “Pastorale dei divorziati” – i sacerdoti che si erano sposati, violando la legge del celibato e venendo meno alla loro promessa, potevano essere assolti soltanto se, assieme alla madre dei loro figli (la donna sposata con matrimonio civile), rinunciavano effettivamente a ogni rapporto coniugale ed erano disposti a vivere “da fratello e sorella”». L’impegno alla «totale astinenza» dai rapporti sessuali era dunque applicata fino al Concilio per quei sacerdoti che dopo essersi impegnati a vivere il celibato, avevano avuto dei figli e si erano sposati civilmente per garantire la prole, in un tempo in cui essere figli «illegittimi» comportava pesanti conseguenze.

La clausola restrittiva della totale astinenza come condizione perché i divorziati risposati possano accedere ai sacramenti, che non era presente nei pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della fede durante il pontificato di Paolo VI, «per quanto ripetuta in testi successivi» dopo l’enciclica «Familiaris consortio», è ora «omessa dalla Relatio finalis del Sinodo – scrive monsignor Semeraro – Secondo un procedimento proprio della riflessione teologica, questa scelta è una modalità per lasciare “aperto” un testo, che il Sinodo ha voluto affidare a un nuovo discernimento del Sommo Pontefice».

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