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Quando l’ossessione per il lavoro quasi uccide il matrimonio

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Orfa Astorga - pubblicato il 11/12/15

Sempre più donne optano per una parentesi nella vita lavorativa per fare le casalinghe

Il 10 novembre scorso, la moglie di Bill Gates ha diffuso i risultati del rapporto McKinsey: se si pagasse lo stipendio alle casalinghe, si arriverebbe a 10.000 milioni di dollari, quasi il PIL della Cina. Se le donne che si prendono cura della casa fossero una Nazione, quel Paese rappresenterebbe la quarta economia più potente al mondo.

Mio marito ed io abbiamo iniziato la nostra vita matrimoniale molto felici dei nostri rispettivi ruoli. Lui, seppur con entrate modeste, provvedeva eroicamente a tutto quello che era necessario, mentre io mi incaricavo della cura e del calore della casa. Confidavamo in un futuro di cui prevedevamo le possibilità con l’ottimismo di saperci molto uniti. A poco a poco facevamo gradite scoperte della nostra complementarietà per via delle rispettive capacità e peculiarità, alcune innate e altre acquisite, che trasformavamo in dono amorevole per il miglioramento del progetto in comune. Le nostre abitudini, i nostri comportamenti, i nostri modi di funzionare come coppia armonizzavano le nostre qualità. Ci sembrava la cosa più normale distribuire le funzioni e condividere l’autorità nel campo in cui eravamo naturalmente più capaci.

Visto che entrambi eravamo universitari, un giorno gli ho chiesto l’opportunità di esercitare la mia professione solo part-time perché la cura della famiglia non ne risentisse, visto che avevamo già due figli piccoli. Non è stato così, e a poco a poco mi sono dedicata a tempo pieno al lavoro fuori casa con grande impegno, e con il tempo sono stata più “fortunata” perché le mie entrate hanno superato quelle di mio marito.

Il nostro livello di vita materiale all’improvviso non mi soddisfaceva più e ho iniziato a prendere decisioni imponendomi su mio marito. Ho cambiato senza consultarlo la modesta cucina con cui mi aveva sorpreso un giorno con una di livello più alto, e lo stesso è accaduto con la sala, che all’epoca era stata la sua sorpresa più bella. L’ho anche spinto ad accettare dei prestiti per modificare la casa e cambiare la macchina, tra le altre cose che non erano realmente necessarie. Mio marito mi diceva di non essere d’accordo, ma io non me ne curavo.

Il nostro modo di trattarci, il nostro comportamento affettivo e con questo tutto il nostro modo di vivere il matrimonio sono cambiati. Con nobili intenzioni, mi ha chiesto di smettere di lavorare, perché nel nostro caso non era strettamente necessario. Ho espresso il mio disaccordo e anziché favorire un adattamento in circostanze mutate la mia reazione è stata quella di difendere la mia posizione paragonando l’importanza dei nostri ruoli professionali a livello di entrate, segnalando la cosa come un progresso e relegando a un piano inferiore i ruoli con cui avevamo iniziato il nostro matrimonio.

Mio marito ha adottato un atteggiamento distante, riflesso di un rifiuto di questo “progresso”, e così siamo passati da un rapporto armonioso in cui le nostre qualità si univano a una relazione tesa di ricerca di un equilibrio di malintesa leadership familiare, che a poco a poco ci ha portati sull’orlo della rottura. La nostra casa aveva più cose materiali, ma ha smesso di essere un luogo di incontro in una comunità di vita e amore.

Lo amavo ma non mi davo il tempo di comprenderlo, perché me lo impediva la pressione incessante del mio lavoro, e… devo ammetterlo, anche e soprattutto la superbia, che ci impedisce di ritrovare l’amore dentro di noi, allontanandoci da tutto ciò che ostacola. Quella superbia della vita per la quale misuriamo solo il valore di ciò che vediamo e tocchiamo.

Mi sono resa conto che il divorzio è una triste realtà che pone fine ad alcuni matrimoni, di fronte all’incapacità di rendere compatibile l’esercizio fruttuoso di una professione e la dedizione piena e totale richiesta dalla natura del matrimonio. Questa incompatibilità può essere risolta, ma richiede una maturità che noi non avevano ancora raggiunto.

Ho capito allora che avevo imboccato una via in cui l’unica uscita per salvare il mio matrimonio era tornare alla vita familiare prima che l’amore ci morisse tra le mani. Tornare al punto in cui avevo preso la via sbagliata e ricominciare correggendo la direzione, per scoprire che insieme valiamo di più, perché anche se due persone sono sposate da pochi anni l’intimità condivisa è tale che di fatto la vita di ciascuno di loro considerata in modo isolato risulta inconcepibile.

Abbiamo concordato e deciso che dovevo rinunciare a quel lavoro redditizio e assorbente per trovare in futuro un’opzione che mi permettesse davvero di prendermi cura sia del progetto familiare che di quello professionale, considerando che il primo era sempre il più importante. Ci saremmo basati solo sullo stipendio di mio marito, che aumentava a poco a poco e che in sé era sufficiente per riscattare le gioie essenziali del matrimonio. In quella rinuncia, ho visto con occhi nuovi l’importanza del ruolo spesso incompreso e sottovalutato della casalinga, della sposa e della madre che si coniuga con l’amore dello sposo per far sì, con attenzioni impossibili da misurare in termini di produttività o di denaro, che attraverso l’amore ciascuno dei membri della famiglia diventi la persona che è chiamata ad essere.

Nel matrimonio, l’autorità condivisa somma, unisce, moltiplica, perché è ordinata alla cooperazione e non alla concorrenza. La cooperazione per sua natura richiede sempre l’aiuto e la complementarietà. L’autorità in famiglia è un servizio d’amore.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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