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Il regista del primo film sul Papa: ho scoperto il segreto di Bergoglio

Credere - pubblicato il 29/11/15

Esce nelle sale "Chiamatemi Francesco", diretto da Daniele Luchetti

di Giovanni Ferrò

Un cristiano che ama, prega, lotta. Un pastore che – con fede e testardaggine – si trova ad attraversare uno dei momenti più drammatici della storia della Chiesa in Argentina, quello della dittatura dei generali. Alla fine, ne esce – come la figura biblica di Giacobbe – ferito: ma proprio per questo sarà un vescovo più “umano”, vicino agli ultimi, sensibile al grido dei disperati. La figura di Jorge Mario Bergoglio, così come è raccontata nel film Chiamatemi Francesco, che sarà nei cinema italiani dal 3 dicembre, non ha nulla del ritratto agiografico. Eppure proprio per questo emoziona e commuove.

IL “ROMPICAPO” BERGOGLIO

Il regista Daniele Luchetti, che insieme al produttore Pietro Valsecchi ha voluto realizzare questo progetto, dice: «A me che non sono credente, papa Francesco ha cominciato a trasmettere fortissime emozioni sin dal primo istante della sua elezione. Mi ha “parlato”. Questa cosa mi ha stupito, perché non mi era mai successo con un Papa, se non nei primi tempi del pontificato di Giovanni Paolo II. Con il film, perciò, ho voluto cercare di capire perché quella persona oggi è così. È stato un rompicapo difficile, che si è sciolto solo quando mi sono risultati chiari due indizi: il primo lo ha dato lo stesso Bergoglio, parlando di se stesso come di un uomo che per tutta la vita è stato «preoccupato». Il secondo indizio è stato vedere, in un video su YouTube, il cardinale Bergoglio durante una testimonianza davanti a un tribunale argentino: emerge l’immagine di una persona che ha portato su di sé il peso degli anni terribili della dittatura. Da questi due indizi ho intuito la parabola di quest’uomo che, giunto al vertice della Chiesa cattolica, ritrova la serenità, la libertà nel governare, la capacità di usare il potere in maniera totalmente disinteressata. Papa Bergoglio trasmette l’emozione di chi crede profondamente in ciò che fa perché, nel corso della sua storia, è passato attraverso degli inferni, come il terrorismo di Stato della giunta militare».

LA PROVA DELLA DITTATURA

Il percorso narrativo del film alterna due piani temporali differenti: alla vigilia del Conclave che lo eleggerà 266° successore di Pietro, l’anziano cardinale Bergoglio (interpretato da Sergio Hernàndez) fa una sorta di riesame della sua esistenza. La cinepresa rimbalza, perciò, sul giovane Bergoglio (un magistrale Rodrigo de la Serna), un ragazzo come tanti nella Buenos Aires degli anni Sessanta, che lavora, ride, si innamora. Poi però decide di lasciare tutto per entrare tra i Gesuiti, con il sogno di andare missionario in Giappone. Nel Paese del Sol Levante non arriverà mai. In compenso si ritrova presto alle prese con gravi responsabilità: divenuto provinciale del suo ordine in Argentina, è costretto a confrontarsi con la violenza della dittatura, che non esita a rapire, torturare e uccidere anche preti e religiosi impegnati nel sociale, sospettati di essere “di sinistra”. Avviene così per il vescovo Enrique Angelelli, amico personale di Bergoglio, che i sicari del regime uccidono dopo aver inscenato un finto incidente stradale. Succede per migliaia di desaparecidos, sequestrati e fatti sparire, spesso trucidati lanciandoli da aerei militari nel Rio de la Plata (i cosiddetti vuelos de la muerte), ed è il caso anche di una cara amica del futuro Papa.


Padre Jorge si fa in quattro per salvare il maggior numero di persone: nasconde dei seminaristi ricercati dai militari; mette in salvo una giudice poco disposta a tollerare le illegalità della dittatura e, dunque, nel mirino dei militari; cerca di mettere in guardia i gesuiti Francisco Jalics e Orlando Yorio dalle minacce che pesano sulla loro incolumità a causa dell’impegno a fianco dei poveri. I due religiosi saranno poi rapiti e torturati. E solo le pressioni tenaci di Bergoglio sul generale Videla consentiranno loro di essere liberati. L’occhio della telecamera non indugia mai sull’oscenità della morte, ma ci rimanda tutto il dolore della tragedia collettiva. «È stata una scelta precisa», spiega Luchetti. «Ho voluto fare un film che stimolasse l’intelligenza e l’emozione, ma senza utilizzare gli strumenti facili del voyeurismo sulla sofferenza».

IL PASTORE DELLE PERIFERIE

Dopo gli anni della dittatura, il racconto accenna all’esilio di padre Jorge in una parrocchia di campagna, per arrivare all’inattesa nomina a vescovo ausiliare della capitale, dove Bergoglio “torna sulle barricate”, difendendo i curas villeros, i preti che vivono nelle periferie più disperate. La vicinanza agli ultimi gli resta “attaccata” come una sana abitudine, umana prima ancora che cristiana. Fino a diventare lo stile di un nuovo modo di “fare il Papa”.

Ma Francesco ha visto il film? «Su questo c’è un piccolo mistero», risponde Luchetti. «Una volta terminata, abbiamo fatto vedere la pellicola ad alcune persone molto vicine al Papa, che lo hanno apprezzato e lo hanno definito “veritiero”. Poi ci è arrivato l’invito a proiettarlo in aula Paolo VI in Vaticano. Immagino dunque che il Pontefice sia al corrente dell’esistenza di questo film. Se poi sarà presente anche lui alla proiezione, sarò ovviamente molto felice, e anche molto imbarazzato, perché ci vuole una certa incoscienza a fare un film su un personaggio vivente che, per di più, di mestiere fa il Papa».

CONQUISTATO DA FRANCESCO

Il regista, da buon laico, non aveva mai affrontato una personalità religiosa nei suoi lungometraggi. Che cosa gli ha lasciato “l’incontro” con Bergoglio? «Devo essere onesto: ho vacillato e vacillo molto. È una cosa che mi ha colpito profondamente il contatto con quel mondo cattolico del Sudamerica, così capace di tenere insieme impegno a fianco dei poveri con un livello altissimo di riflessione. Sinceramente non me lo aspettavo. Avevo forse una immagine stereotipata della Chiesa, fatta di tanti riti e poco contatto con la realtà. Scoprire un mondo totalmente capovolto mi ha toccato. E dal punto di vista spirituale, quando ti accosti a un personaggio del genere, con una tale fede, anche un non credente come me non può rimanerne indenne completamente. E non ne sono tuttora indenne».

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