Esce nelle sale "Chiamatemi Francesco", diretto da Daniele Luchetti
di Giovanni Ferrò
Un cristiano che ama, prega, lotta. Un pastore che – con fede e testardaggine – si trova ad attraversare uno dei momenti più drammatici della storia della Chiesa in Argentina, quello della dittatura dei generali. Alla fine, ne esce – come la figura biblica di Giacobbe – ferito: ma proprio per questo sarà un vescovo più “umano”, vicino agli ultimi, sensibile al grido dei disperati. La figura di Jorge Mario Bergoglio, così come è raccontata nel film Chiamatemi Francesco, che sarà nei cinema italiani dal 3 dicembre, non ha nulla del ritratto agiografico. Eppure proprio per questo emoziona e commuove.
IL “ROMPICAPO” BERGOGLIO
Il regista Daniele Luchetti, che insieme al produttore Pietro Valsecchi ha voluto realizzare questo progetto, dice: «A me che non sono credente, papa Francesco ha cominciato a trasmettere fortissime emozioni sin dal primo istante della sua elezione. Mi ha “parlato”. Questa cosa mi ha stupito, perché non mi era mai successo con un Papa, se non nei primi tempi del pontificato di Giovanni Paolo II. Con il film, perciò, ho voluto cercare di capire perché quella persona oggi è così. È stato un rompicapo difficile, che si è sciolto solo quando mi sono risultati chiari due indizi: il primo lo ha dato lo stesso Bergoglio, parlando di se stesso come di un uomo che per tutta la vita è stato «preoccupato». Il secondo indizio è stato vedere, in un video su YouTube, il cardinale Bergoglio durante una testimonianza davanti a un tribunale argentino: emerge l’immagine di una persona che ha portato su di sé il peso degli anni terribili della dittatura. Da questi due indizi ho intuito la parabola di quest’uomo che, giunto al vertice della Chiesa cattolica, ritrova la serenità, la libertà nel governare, la capacità di usare il potere in maniera totalmente disinteressata. Papa Bergoglio trasmette l’emozione di chi crede profondamente in ciò che fa perché, nel corso della sua storia, è passato attraverso degli inferni, come il terrorismo di Stato della giunta militare».
LA PROVA DELLA DITTATURA
Il percorso narrativo del film alterna due piani temporali differenti: alla vigilia del Conclave che lo eleggerà 266° successore di Pietro, l’anziano cardinale Bergoglio (interpretato da Sergio Hernàndez) fa una sorta di riesame della sua esistenza. La cinepresa rimbalza, perciò, sul giovane Bergoglio (un magistrale Rodrigo de la Serna), un ragazzo come tanti nella Buenos Aires degli anni Sessanta, che lavora, ride, si innamora. Poi però decide di lasciare tutto per entrare tra i Gesuiti, con il sogno di andare missionario in Giappone. Nel Paese del Sol Levante non arriverà mai. In compenso si ritrova presto alle prese con gravi responsabilità: divenuto provinciale del suo ordine in Argentina, è costretto a confrontarsi con la violenza della dittatura, che non esita a rapire, torturare e uccidere anche preti e religiosi impegnati nel sociale, sospettati di essere “di sinistra”. Avviene così per il vescovo Enrique Angelelli, amico personale di Bergoglio, che i sicari del regime uccidono dopo aver inscenato un finto incidente stradale. Succede per migliaia di desaparecidos, sequestrati e fatti sparire, spesso trucidati lanciandoli da aerei militari nel Rio de la Plata (i cosiddetti vuelos de la muerte), ed è il caso anche di una cara amica del futuro Papa.