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Vostra moglie è più “aggressiva” del solito? Mai pensato alla sindrome di Medea?

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 27/11/15

In realtà, non c’è da scherzare: è una patologia seria che nei casi estremi può arrivare fino all'omicidio

Cos’ è la “sindrome di Medea”? Chi ne è affetto? Stiamo parlando di una patologia psichiatrica molto pericolosa che colpisce le donne e che può destabilizzare fortemente il rapporto con figlio/i e marito. E nei casi estremi arrivare persino all’omicidio del figlio.

Giacomo Dacquino in “Guarire l’amore. Strategie di speranza per la famiglia di oggi” che spiega come oggi ne “soffrano” (edizioni San Paolo), per spiegare questa patologia parte dal racconto mitologico di Medea.

IL MITO DI MEDEA
Medea, figlia di Eete, re della Colchide, s’innamorò di Giasone, capo degli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro, che promise di sposarla. Conquistato il Vello e tornato a Corinto, visse dieci anni con la moglie Medea, fino a quando il re di Corinto, Creonte, decise di dargli in sposa la figlia Glauce. Giasone accettò e abbandonò Medea che, per vendetta, uccise con il veleno la giovane Glauce, il padre Creonte e i due figli avuti da Giasone, il quale poi si suicidò. Da tale evento tragico della letteratura greca (il tragediografo Euripide lo rappresentò nel 431 a.C.), ha preso nome la “sindrome di Medea” che corrisponde alla violenza delle madri verso la prole.

CASI MENO GRAVI
Le donne, scrive Dacquino, sono capaci di grandi amori, ma anche di grandi odi. Nei casi meno gravi di aggressività, la madre dice al padre: “Ti privo dei figli e te li rendo nemici; voglio punirti”, realizzando comportamenti seduttivi o imbonitori per accaparrare i figli, che vengono poi usati per danneggiare il padre, dimostrando di non voler loro bene e di non fare il loro bene.

CASI PIU’ GRAVI
Nei casi gravi, le motivazioni che portano al figlicidio sono una rivalsa a un torto o a un danno subito, quindi un desiderio di vendetta contro il coniuge che ha lasciato la moglie, magari per una terza persona, ed è la motivazione più frequente. Sono madri che considerano i figli come una sorta di appendice del loro corpo, ancora trattenuti dal cordone ombelicale in un vincolo inscindibile. A volte poi si considerano l’unico essere in grado d’amarli, per cui, durante una crisi psicotica, compiono l’infanticidio, pur in assenza di conflitti sentimentali con i loro partner (Giasone non c’entra).

MOVENTE ALTRUISTICO
Un altro movente al figlicidio, prosegue l’autore di “Guarire l’amore“, è quello altruistico, che parte dalla convinzione malata della rovina economica imminente e inevitabile: la donna killer uccide perché crede che il figlio o la famiglia intera stia andando incontro a un tracollo economico (infatti la violenza viene attuata nei confronti di figli piccoli e indifesi: l’età media delle vittime è di 2-3 anni).

OSSESSIONE PER IL FUTURO NEGATIVO
Una terza motivazione è l’ossessione di un futuro negativo per i figli quali la prostituzione, la tossicodipendenza, la delinquenza ecc. Frequentemente è presente una psicosi schizofrenica con deliri vari. Infatti circa il 33 per cento delle madri assassine è affetto da infermità mentale, quindi incapace di intendere e di volere. Spesso non sono consapevoli di quello che stanno compiendo.

LA PARTE OSCURA DELLE DONNE
La genesi della sindrome di Medea, evidenzia Dacquino, è che in ogni madre vi è una parte oscura, conseguenza dell’ambivalenza affettiva, che nessuna donna vuole vedere e accettare. È una parte aggressiva che si manifesta, al di là dei sentimenti di accoglienza e accudimento, con reazioni aggressive ai pianti del bambino, alle sue insonnie notturne, ai suoi capricci; e queste reazioni devono essere accettate da ogni madre, senza sentirsi in colpa.

Ma per questo occorrono l’aiuto e la vicinanza dei familiari, poiché nei momenti di crisi tale mamma ha bisogno di ascolto, di comprensione, d’affetto.

DIMENTICARE PER NON SOFFRIRE
Talora è presente l’amnesia dissociativa che rientra nei disturbi psicotici, con incapacità di rievocare importanti ricordi personali di solito legati ad angosciosi eventi traumatici. Quando una realtà è così gravosa da non potersi affrontare, allora la si rimuove poiché il dimenticare è la miglior strategia per smettere di soffrire, un meccanismo di difesa che scatta al di là della propria volontà, per cui il soggetto non ne è consapevole.

NEGARE LA PARTECIPAZIONE AL CRIMINE
Tale cancellazione dalla memoria dell’atto delittuoso comporta il negare la partecipazione al crimine e l’autoproclamazione della propria innocenza con la dichiarazione di aver sempre protetto la propria vittima. Con la psicoanalisi, conclude Dacquino, si può smascherare tale recita in buona fede del conscio.

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