Una riflessione all’indomani della strage di Parigidi Andreas Hofer
All’indomani della strage di Parigi, con la Francia ancora sanguinante dopo essere stata colpita al cuore dalla ferocia islamista, Fabrice Hadjadj ha preso la penna alla sua maniera scrivendo per Famille Chrétienne un editoriale dal sapore ignaziano. E lo ha fatto non certo per chiamare a raccolta le potenze telluriche o per schiumare indignazione, ma per mobilitare prima di tutto le potenze dell’anima: memoria, intelletto, volontà. Perché è qui, nelle profondità dello spirito, che allignano i mostri più pericolosi: «Avevamo perduto la guerra», esordisce. «Non parlo di un’assenza di successo. Al contrario, avevamo preso l’abitudine di cullarci nel comfort e nei successi, fintanto che una malattia, un incidente, un fatto di cronaca, un male senza lotta né nemico non ci avessero portati via come un computer impallato, in una insignificanza al di qua dell’assurdo».
La sinergia tra tecnologico e pulsionale ci ha consegnato a una soporifera illusione. Ci aveva dato fin troppo potere, al punto di indurci a riporre tutte le nostre speranze terrene in una integrale schermatura in grado di esentarci da ogni rischio. Un sogno antico, quello di plasmare un uomo ipertecnologico: riporta alle seduzioni prometeiche di un’umanità insoddisfatta di essere semplicemente creatura e ansiosa di divenire creatrice. Ma questa nuova creazione per ora ha dato i natali soltanto a un bimbo viziato chiamato a costituire se stesso come un soggetto al tempo stesso potenziato (enhanced) e protetto (safe) da ogni genere di pericolo. È la sindrome che Ortega y Gasset aveva battezzato del “signorino soddisfatto”, la tipica fantasia adolescenziale destinata a infrangersi puntualmente di fronte all’irruzione prepotente della realtà.
E così «ci eravamo rammolliti, avevamo perduto ogni virilità, ridotti allo stato di bambini viziati, di marionette preoccupate del loro cardio-training, di pupazzi consumatori di pornografia. Non volevamo la pace che si fa, ma quella che ci lascia in pace, poco importa al prezzo di chissà quali devastazioni, di chissà quali “danni collaterali”». Presi da un irenismo infantile, avevamo dimenticato una cosa fondamentale, cioè che «la pace è opera della giustizia», come dice Isaia.
Un altro francese dallo sguardo penetrante, Charles Péguy, avrebbe definito il nostro way of life come l’apoteosi del “sistema pace”. In uno dei suoi ultimi scritti, L’argent suite, Péguy distingue tra un “sistema pace” in cui l’ordine materiale (piacere e vitalità, benessere, consumo, eccetera) è il valore assoluto, e un “sistema diritti dell’uomo” in cui invece ha valore supremo la giustizia.
Dal secondo dopoguerra in avanti “sistema pace” è diventato sinonimo di “democrazia”, sicché, tornando ad Hadjadj, a forza di nutrirsi di una pace alimentata dal nulla «è normale, quando si rifiuta questa battaglia per la giustizia, che la nostra pace apparente ci esploda in faccia. Ed ecco allora che girovagare per la strada non è più qualcosa di scontato, come per i passeggiatori disincantati. La guerra ci ha raggiunti. È già qualcosa, nell’ottica del risveglio. Ma questa guerra la vinceremo? Combatteremo la «buona battaglia», secondo le parole di san Paolo?».
Certo, il cristiano non è un bellicista o un guerrafondaio, non crede alla retorica della guerra come sola igiene del mondo. Difatti «è la figura dell’amore a dominare nella vita cristiana, quella del fratello, del figlio, di colui che dialoga, di colui che ha compassione».
Tutto vero. Ma, avverte Hadjadj, «non possiamo dimenticare quella del guerriero. Un guerriero dalle armi anzi tutto spirituali, ma pur sempre guerriero. Certo, contrariamente a quanto crede un certo darwinismo, la vita è comunione prima di essere battaglia, è dono prima di essere lotta. Ma poiché questa vita è ferita fin dall’origine, incessantemente attaccata dal Maligno, occorre lottare per il dono, combattere per la comunione, impugnare la spada per estendere il Regno dell’amore».
Occorre ripristinare quella che papa Francesco, da buon gesuita, ha chiamato «dimensione belligerante della vita apostolica». Il cristiano che abbraccia la Croce sa che seguire il cammino del Signore lo porterà a incontrare un’opposizione risoluta, che gli riserverà ostilità e persecuzione. Perciò bisogna lottare, dice il Papa, a patto di saper lottare «nel modo divino», senza confondere cioè la battaglia con la baraonda (come fanno i paranoici che coltivano una «spiritualità da vittima di complotto») ma anche senza ricercare una pace fasulla per il timore di battersi (come fanno coloro che «hanno immolato la propria vita sugli altari di un irenismo tanto infecondo quanto inefficace»).
Anche Hadjadj invita a riscoprire questo senso belligerante dell’esistenza: «Se non ritroviamo questa virilità guerriera, quella che faceva cantare a san Bernardo l’«elogio della nuova milizia», noi avremo perso contro l’islamismo tanto spiritualmente quanto materialmente. Molti giovani, in effetti, si rivolgono all’islam perché il cristianesimo che proponiamo non contiene più eroicità né cavalleria (quando invece Tolkien sta dalla nostra parte), ma si riduce a garbati consigli di civismo e di comunicazione non-violenta».
Non bisogna cadere di nuovo nella palude delle illusioni. Quella lanciata dall’islamismo è una vera guerra, le sue stragi sono vere stragi. Solo che la fonte della sua potenza distruttiva non si trova al livello della tecnologia militare. E allora «qual è il vero terreno di questa guerra? Alcuni vorrebbero farci credere che la forza dei terroristi dello scorso venerdì 13 consista nel fatto di essere stati addestrati, formati nei campi di Daesh, di modo che la battaglia sarebbe ancora quella della potenza tecnocapitalista per fabbricare un armamento più pesante. Ma in che modo un ragazzo bloccato alle uscite di sicurezza, e che si fa saltare in aria con degli esplosivi rudimentali, può essere un soldato navigato? Noi sappiamo – e lo ha provato l’esperienza recente di Israele – che chiunque può improvvisarsi assassino nel momento in cui è posseduto da un’intenzione suicidaria. Ciò che costituisce la sua forza di distruzione, pronta a esplodere in qualunque momento e luogo, non è la sua abilità militare, ma la sua sicurezza morale».
Come rispondere allora all’offensiva islamista? In questi giorni circola una vignetta disegnata da un’anonima fumettista francese subito dopo la strage di Parigi. La protagonista è Marianne, il simbolo stesso della Francia rivoluzionaria, ritratta come una ragazza nuda, bionda, fiera, che beve vino, ascolta musica, fa l’amore. E la 27a ora, il blog del Corriere della Sera, si premura di informarci che questa licenziosa Marianne «è la nostra risposta a Isis».
All’ordine senza libertà propugnato dall’islamismo si oppone dunque la libertà senza ordine della Marianne “desnuda”. Il pensiero dominante ci propone questo genere di alternativa: non una scelta tra la libertà e la tirannia, ma la scelta tra due schiavitù sempre pronte a rovesciarsi l’una nell’altra.
È la tipica dialettica tra due errori speculari costata cara all’Europa già ai tempi di Weimar. Nel 1975 un altro grande figlio di Francia, il “filosofo contadino” Gustave Thibon, aveva scritto parole che oggi sentiamo risuonare come profetiche, sebbene in un contesto socio e geo-politico profondamente mutato (allora eravamo nel pieno del confronto tra mondo occidentale e mondo comunista): «Chi sarebbe disposto a morire per difendere la società dei consumi, la libertà (forse è meglio dire l’alienazione) sessuale o quel clima di larvata anarchia che detta legge nei rapporti economici e sociali? La putrefazione della libertà è il terreno d’elezione della schiavitù… ».
Sono parole che riecheggiano in quelle di Hadjadj: «Cosa abbiamo noi da opporre per impedire il contagio? I nostri «valori» possono al massimo mobilitare un esercito di consumatori, non di combattenti. Perciò è qui che si svolge la battaglia fondamentale – al livello di una fede capace di sostenere un vero martirio – contro quella parodia diabolica del martirio che è l’attentato suicida».
Tutta la storia del cristianesimo è attraversata da questo dilemma: come opporsi al male senza che l’uomo si faccia trascinare nell’abisso, esponendosi così al contagio dello spirito? Come evitare che la battaglia contro l’errore si tramuti in odio contro l’errante? San Bernardo di Chiaravalle per questo aveva addirittura elaborato la dottrina cosiddetta del “malicidio”. Secondo san Bernardo la necessità dei templari di combattere – ed eventualmente uccidere – coloro che minacciavano i pellegrini e Gerusalemme non doveva mai trovare il movente nell’odio per l’avversario, ma solo nella necessità di arrestare il male oggettivo che egli apportava col proprio agire.
Anche in battaglia il “miles Christi” deve continuamente purificare il proprio cuore, in modo da ricordare che mai deve essere mosso dall’odio per la persona del proprio avversario, ma solo dall’intento di combattere il male di cui è portatore. Malicidio, uccisione senza odio. Per questo la prima cosa da chiedere è di “restare cristiani”, di non disperdere la carità nei miasmi dell’alterigia e del disprezzo. In caso contrario anche “difendere la vera fede” può diventare opera demoniaca. È la tentazione pragmatico-utilitaristica che vediamo descritta proprio da Tolkien nel Signore degli Anelli: opporsi al male con gli strumenti da lui forgiati (l’Anello dell’oscuro Sire) finisce per trasformare in operatori d’iniquità, rende strumenti del male, per quanto nobili potessero essere le intenzioni di partenza.
Anche nell’agone il cristiano deve militare dalla parte del Dio della vita. Lo sa bene pure Hadjadj, che conclude così il suo vibrante editoriale: «Il comunicato di Daesh che rivendica l’«attacco benedetto» parla di Parigi come della capitale «che porta la bandiera della croce in Europa». Quanto vorremmo che dicesse la verità. La guerra è qui: nel coraggio di avere una speranza tanto forte da poter dare le nostre vite e dare la vita».