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Quando il Concilio Vaticano II proclamò il principio della libertà religiosa

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 19/11/15

"Nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza..."

“…La persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà consiste in ciò, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte sia di singoli individui, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, e in un modo tale che inmateria religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, da solo o associato ad altri…”.

A leggerle oggi, queste parole potrebbero sembrare ovvie, scontate, e quindi lasciare indifferenti. La libertà religiosa e il concetto di tolleranza, ormai da tempo, fanno parte non solo del linguaggio ma della vita stessa e della missione della Chiesa cattolica. Ma quando cinquant’anni fa vennero scritte nella dichiarazione Dignitatis humanae, e così diventarono magistero solenne e universale, quelle parole furono indiscutibilmente le parole più nuove nei documenti del Concilio Vaticano II. Anzi, bisognerebbe dire, le parole con il contenuto più rivoluzionario.

Ed erano le parole più nuove, più rivoluzionarie, perché erano profondamente diverse da quelle, per lo più negative, pronunciate dalla Chiesa e dai Pontefici, tra il XVIII e il XIX secolo, sulla libertà di coscienza e, più in generale, sulle libertà moderne e sugli stessi diritti umani. Anche se – va subito precisato – si trattava di pronunciamenti che andrebbero necessariamente considerati e contestualizzati nella particolare situazione storica, politica e culturale di quei tempi.

Basterebbe infatti ricordare la lotta antireligiosa che aveva caratterizzato specialmente gli inizi della Rivoluzione francese, e la durissima repressione che la Chiesa aveva dovuto subire. Così come bisognerebbe ricordare l’insorgere del razionalismo, e dell’indifferentismo, per il quale valeva il principio, di matrice illuminista, che una religione vale l’altra. La Chiesa, di conseguenza, era entrata in conflitto con il mondo. Rivendicando la libertà religiosa in maniera esclusiva, come espressione dell’unica “vera religione”, si era di fatto opposta alle Costituzioni liberali, alla democrazia, alla modernità.

Da lì, da quella posizione inevitabilmente difensiva, erano uscite diverse condanne, anche solenni, anche severe, come l’enciclica di Gregorio XVI Mirari vos, del 15 agosto 1832. Ma già prima, nel Concistoro segreto del 29 marzo del 1790, Pio VI aveva definito “empia” la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, e “mostruosi” gli stessi diritti. E soltanto con Leone XIII (il quale, nell’enciclica Libertas praestantissimum, aveva ammesso una “promiscua libertà di religione”, ma solo per una “giusta causa”) si era registrato un primo cambiamento nella vita e nell’insegnamento nella Chiesa.

Si accentuò, questa evoluzione, durante i tragici anni della Seconda guerra mondiale, per la crescente presa di coscienza della dignità della persona umana. Tuttavia, la Chiesa continuò a conservare un atteggiamento non sempre lineare. Là dove era in una situazione minoritaria, reclamava libertà per tutti invocando il rispetto dei diritti della persona umana; mentre, nei Paesi dove i cattolici erano in maggioranza, come in Spagna, tendeva a negare una più ampia libertà agli altri in nome dei diritti della “verità”.

Immaginiamoci perciò che cosa potesse significare, avendo alle spalle un simile passato, il dibattito in Concilio. Ci furono molte difficoltà, molti rifacimenti dello schema, e un lungo serratissimo confronto. Da una parte, i padri favorevoli, tra i quali i vescovi statunitensi e quelli dell’Europa comunista, in particolare l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla. Dall’altra parte, i padri contrari, specialmente spagnoli e italiani, i quali ritornavano continuamente a insistere sui rischi di mettere l’errore sul medesimo piano della verità. O come disse il cardinale Alfredo Ottaviani: “Il testo amplia eccessivamente i limiti dei diritti della coscienza che si trova nell’errore”.


Quando ritornò in aula, nell’ultima sessione, lo schema – oltre a una sottolineatura della dottrina sulla “vera religione”, per evitare interpretazioni erronee e pericolose – conteneva già all’inizio un cambiamento fondamentale: il diritto alla libertà religiosa veniva ora proclamato a partire dalla “dignità della persona umana”, ossia da quella verità razionale, propria di ogni uomo, che è il diritto naturale, e sulla quale si basa l’ordine socio-giuridico. Nello stesso tempo, si faceva naturalmente riferimento alla Rivelazione divina, giacché la libertà dicoscienza non dispensa dal cercare la verità, “specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa”.

Quella nuova formulazione convinse molti degli esitanti e degli stessi contrari. Il 7 dicembre del 1965, nello scrutinio finale, i non placet furono solo settanta. E così passarono quei due principi fortemente innovativi: che nessuno sia costretto a credere, e quindi forzato ad agire contro la propria coscienza; e nessuno sia impedito di credere, di professare la propria fede. Prese dunque ispirazione da lì, dalla Dignitatis humanae, l’opzione definitiva per l’uomo che la Chiesa avrebbe poi compiuto. Mettendo la persona umana al primo posto dei diritti e delle libertà fondamentali; e non più, come in passato, difendendo anzitutto le proprie posizioni o rivendicando in primo luogo la propria libertà.

Va ricordato che, proprio la dichiarazione sulla libertà di coscienza e di religione, fu la causa scatenante della ribellione di mons. Marcel Lefebvre. Il rifiuto della “nuova Messa” ne rappresentò l’aspetto più vistoso, più polemico. Così come ebbe anche un peso non indifferente l’opposizione alla collegialità episcopale, e all’ecumenismo. Ma, prima di tutto, c’era la Dignitatis humanae. Per mons. Lefebvre, questo documento era la prova evidente del cedimento della Chiesa alle idee moderniste, allo spirito del maligno, e soprattutto la prova del tradimento della Tradizione, della dottrina magisteriale.

Ma, a parte questo risvolto indubbiamente doloroso, bisogna egualmente ricordare che, dalla Dignitatis humanae, cambiarono molte cose nel cattolicesimo. Cambiò un certo modo di pensare ispirato alla condanna, alla contrapposizione. Cambiarono i rapporti con le Chiese cristiane, e con le altre religioni, rapporti ora caratterizzati dal dialogo, dalla comprensione reciproca, dalla tolleranza. Cambiò l’atteggiamento verso gli Stati, chiudendo così l’epoca dei compromessi, dei Concordati intrisi di privilegi. Ma ancora più importante, per il fatto di avere assunto nella sua stessa missione la difesa e la promozione dei diritti umani, la Chiesa poté così riappropriarsi – come di un ideale “naturalmente” evangelico, cristiano – di quei principi umanitari che per lungo tempo erano stati appannaggio esclusivo dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese.

E da allora, a motivo di questa rinnovata credibilità, la Chiesa è stata in grado di esercitare una forte pressione sull’opinione pubblica internazionale; e, quindi, di alzare la voce, una voce sempre più autorevole, per chiedere il rispetto dei diritti umani e, in particolare, della libertà religiosa. Tanto più che, caduto il Muro, e finito l’ateismo eretto a sistema, la geografia del mondo è stata macchiata da una nuova drammatica intolleranza religiosa: fintanto a tradursi, nei Paesi dominati dal fondamentalismo islamico, in una terribile persecuzione dei credenti. E, come denuncia di continuo papa Francesco, in un martirio ancora peggiore di quello degli inizi del cristianesimo.

Ed ecco perché quelle parole della Dignitatis huamane – parole rivoluzionarie, coraggiose – acquistano oggi, specialmente oggi, una nuova pressante e drammatica attualità. Perché, proprio in forza della libertà che reclamano per le coscienze, quelle parole denunciano la perversione di quanti pretenderebbero di usare il “nome” di Dio per spegnere questa libertà nel cuore degli uomini.

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