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Come superare la dipendenza dal lavoro

workaholic

© Kzenon/SHUTTERSTOCK

Alfa y Omega - pubblicato il 19/11/15

Uscire dalla spirale del “vivere per lavorare”

“Se questo articolo ti dà fastidio, è fatto per te”. Così inizia uno degli articoli che stanno avendo maggiore diffusione in questi giorni attraverso le reti sociali e Whatsapp: ¿Eres tú un esclavo? (Sei uno schiavo?)

L’articolo è stato pubblicato in uno dei blog del quotidiano Expansión. L’autore è Enrique Quemada, sposato e padre di quattro figli, Presidente della banca ONEtoONE e con una lunga esperienza professionale nel mondo della consulenza e della direzione d’impresa. Nel testo racconta la sua esperienza lavorativa e rivela come si è reso conto del pericolo della spirale del “vivere per lavorare”.

“Da giovane mi dedicavo solo a lavorare, ero diventato uno schiavo”; “oggi il mondo delle imprese è pieno di schiavi”, “trascorrono giornate interminabili senza lasciare spazio per la famiglia, per Dio o per gli amici”; “essere schiavi oggi per molti è una scelta”, scrive nell’articolo, in cui raccomanda di curare “i quattro fronti della vita (professionale, spirituale, familiare e comunitario), e soprattutto la famiglia”.

Enrique, com’è nato questo articolo?

Mi è venuto in mente dopo aver ascoltato un’omelia in cui il sacerdote parlava degli schiavi moderni e delle catene che spesso abbiamo. Quela notte ho scritto il post di corsa. Avevo bisogno di scriverlo.

Nei miei articoli cerco di parlare di valori. Ne inserisco uno di valori dopo due di strategia e impresa. Mi sono reso conto che i post di valori hanno un grande riscontro. Quando esprimi valori cristiani senza dire esplicitamente che sono cristiani, la gente li divora. Tutti li abracciano e li amano.

Ma non hai eliminato il riferimento a Dio…

Degli amici mi hanno raccomandato di togliere la parola “Dio”. È curioso come molti si vergognino di parlare di Dio. Un giorno però mi sono chiesto: “Come posso fare apostolato?”, e mi sono detto: “Bisogna imitare Cristo, e seguire Matteo 25: se vivi come Lui, andrai in cielo con Lui”. E allora ho deciso di proporre alla gente di vivere come Cristo nell’impresa, senza il rifiuto che a volte suscita il fatto di dire: “Questo è così perché lo dice la Chiesa”.

In un articolo, ad esempio, parlo del fatto che il dirigente è lì per servire gli altri, per rendere più facile la vita altrui… La gente ama queste cose perché in fondo a tutti noi piace la verità, ci riconosciamo in quello che è vivere davvero. Tutto questo ci risuona.

Valori e impresa non sono due termini contraddittori?

Mi chiederei: “Cos’è un’impresa?” Una volta ho lavorato per un uomo che ha installato in un locale di Madrid un gioco del tipo del film Tron, con una serie di prove nelle quali passi da una sala all’altra. È come la vita, superare prove e alla fine muori, e se Dio vuole vai in cielo. Il problema è che c’è gente che resta fissa in una delle sale a contare il denaro. Il gioco non era così, accumulare cose e denaro, o potere e prestigio. C’è gente che non ha capito come funziona il gioco.

L’impresa è uno strumento di vita, per un fine determinato, ma tutte le imprese moriranno, dopo qualche anno moriranno. A volte abbiamo un grande nome perché dirigiamo una grande impresa, ma non possiamo aggrapparci a quel ruolo. Ci sono dirigenti che quando vanno in pensione si rendono conto che non li chiama più nessuno, e all’improvviso capiscono che non siamo niente.

Ciò che conta è mettere il lavoro, l’impresa, in prospettiva. L’importante è curare la gente con cui si lavora tutti i giorni, e se un giorno arrivo al lavoro arrabbiato, o se mi rendo conto che alzo la voce, che mi lascio coinvolgere troppo dai problemi, me ne vado al santuario di Schoenstatt, che è vicino al mio posto di lavoro, a rasserenarmi e a riprendere la prospettiva. Torni e sei un’altra persona.

E per chi non è imprenditore o dirigente, come uscire dalla spirale del “vivere per lavorare”?

Credo che molti di noi si ingannino. Crediamo di lavorare molto per la nostra famiglia, per i nostri figli, per gli altri… e non è così. In fondo ci piace lavorare troppo. È un vizio, e c’è un termine che lo esprime molto bene: workaholic. Molti sono più motivati a lavorare fino a tardi che a tornare a casa a fare il bagno ai figli. Lavorare molto è una deformazione, come lo è darsi all’alcool. Chi ha questa tendenza deve lottare per superarla, altrimenti il lavoro diventa una schiavitù.

Per uscire da questo circolo vizioso, bisogna dare un taglio. Non si può stare a casa pensando al lavoro. Non si tratta nemmeno di fare di meno. Non parliamo di ore, ma di fare ciò che dobbiamo fare. E dobbiamo imparare che quando siamo a casa, siamo a casa.

Chiedi anche di dedicare spazio a Dio…

È quello che raccomandano tutti i santi: dedica un po’ della tua giornata a Dio. E curiosamente è quello che oggi raccomandano in qualche modo i guru dell’impresa e del management: dedica un tempo alla meditazione, ecc. C’è un’infinità di libri su questo concetto. Non puoi vivere senza uno spazio che ti aiuti a mettere le cose in ordine. È tremendamente “igienico”.

Per questo, dicono a noi che preghiamo: “Trovi tempo per tutto”. Il fatto è che con Dio è sorprendente quello che riesci a fare. È perché diamo delle priorità. In caso contrario, ci aspetta il caos

E a che posto sta la famiglia?

Tempo fa avevo un impiegato che lavorava fino a tardi. Sapevo che non aveva lavoro per tutto quel tempo, e gli ho chiesto perché sprecava tante ore. “Ho molto lavoro”, mi diceva. Dopo un mese e mezzo si è separato. Non andava a casa perché non voleva stare a casa, non tollerava l’ambiente. Credo che quando torniamo a casa aiuterebbe tutti noi fermarci a pensare alle persone che ci aspettano: mia moglie, i miei figli… e chiederci: “Che cos’ho per ciascuno di loro?” Non possiamo arrivare a casa lamentandoci. “Quanto sono stanco, quanto lavoro ho…”. No, dobbiamo chiederci cosa possiamo offrire loro: uscire presto per stare con i figli, chiedere com’è andata la loro giornata, cenare con nostra moglie… Se guardiamo solo a noi stessi, è come rimanere al lavoro.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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