Il magistero degli ultimi tre pontefici, sviluppatosi dal Concilio Vaticano II, ha contrastato le spinte fondamentaliste e chi voleva erigere nuovi muri
di Francesco Peloso
Nell’ultimo quarto di secolo, da quando cioè la caduta del Muro di Berlino ha ridisegnato la carta geografica del mondo, la Santa Sede è stata di fatto l’unica istituzione globale che si è opposta con decisione e lucidità al cosiddetto scontro di civiltà; obiettivo, quest’ultimo, perseguito da più parti e su più fronti, in Occidente come in Medio Oriente, in ragione di interessi economici, territoriali, politici. Il magistero di tre pontefici – Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ora Francesco – ha cercato di porre un argine al dilagare dei conflitti e soprattutto al diffondersi della diffidenza, dell’odio, della rottura dei vincoli fra popoli e religioni, alla contrapposizione identitaria e culturale. Per questo la Chiesa di Roma, la stessa piazza San Pietro, sono diventati nel corso di questi decenni simbolo di ragionevolezza, promotori di dialogo anche quando tutto sembrava perduto, riferimento per credenti e non credenti che non hanno voluto cedere alla barbarie.
La Santa Sede e il dialogo con le altre fedi
Giovanni Paolo II aveva visto per tempo i rischi cui si andava incontro e per questo promosse gli incontri interreligiosi di Assisi e un dialogo non facile anche con interlocutori lontani. «Non si uccida in nome di Dio» hanno ripetuto tutti e tre i Pontefici, «è una bestemmia utilizzare il suo nome per giustificare la violenza» ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Il tentativo di mantenere vivo un dialogo fra le grandi tradizioni religiose «del Libro», i viaggi a Gerusalemme, a Istanbul, in Libano, in Giordania, gli incontri ecumenici e quelli con le autorità religiose ed ebraiche e musulmane appartenenti a varie correnti del mondo islamico, una diplomazia attenta ai rapporti con Teheran, Mosca, Washington, Ryad, sono alcuni degli strumenti dispiegati dalla Santa Sede in questi anni complessi. Restano impresse le parole drammatiche pronunciate da Karol Wojtyla mentre il mondo precipitava verso la fatidica guerra in Iraq del 2003 – le cui conseguenze durano tuttora – «ne risponderete a Dio e alla storia», e poi la preghiera di Benedetto XVI nella «Moschea blu» di Istanbul che sorprese il mondo.
Una linea profetica e certamente anche politica e diplomatica, che ha le sue basi nella svolta del Concilio Vaticano II, in documenti come «Nostra Aetate» attraverso i quali la Chiesa si apriva al dialogo e al confronto con le altre fedi coniugando, più in generale, questa scelta con i «segni dei tempi», con quella modernità già così globale a metà degli anni ’60, che non poteva essere rifiutata e condannata a priori. Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, del 2013, papa Francesco parla della necessità del dialogo con l’islam, riafferma la richiesta di libertà religiosa nei paesi musulmani, mette in luce le comuni radici delle due religioni. Quindi osserva: «Di fronte a episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli autentici credenti dell’Islam deve portarci a evitare odiose generalizzazioni, perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono a ogni violenza». E d’altro canto il rischio attuale è proprio questo, che l’odio, la frustrazione, la paura, portino al rifiuto dell’altro in quanto tale, anche in un’Europa dove vivono pacificamente e da anni milioni di musulmani. I muri non sono la soluzione, ha ripetuto Francesco durante la visita alla Chiesa luterana di Roma di domenica scorsa. Se anzi quei muri sorgeranno nelle nostre città, la convivenza, la pace, la libertà saranno messe a rischio.