Era il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Alcuni vescovi di varie parti del mondo, a Roma per partecipare all’assise conciliare, si trovarono a celebrare alle catacombe di Santa Domitilla e “alla fioca luce della sera” firmarono un patto in 12 punti per una “Chiesa povera e per i poveri”. “Era emersa già l’idea della Chiesa dei poveri, soprattutto per l’influsso dell’episcopato latino-americano – racconta uno dei firmatari, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, allora ausiliare a Bologna di mons. Giacomo Lercaro-. Si era, però, ai tempi della Guerra Fredda e il papa Paolo VI ebbe timore che questa sottolineatura potesse assumere un colore politico, così preferì pubblicare più tardi un’enciclica su questo argomento: la Popolorum Progressio”. Fu allora che i vescovi belgi, capofila del Movimento della Chiesa dei poveri, proposero l’idea di un patto tra i vescovi del mondo per impegnarsi in uno stile di vita sobrio, più vicino alla gente, lontano dal lusso e dalla tentazione del potere.
A cominciare dai titoli: “Rifiutiamo di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…) – si legge nel testo -. Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre». “Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto” enuncia puntigliosamente l’elenco in 12 punti, rinunciando “per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti. Né oro, né argento”. “Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca” si impegnavano i vescovi, e “tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli”.
Alla base del servizio rivolto in particolare a “persone e gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati” c’è la consapevolezza “delle esigenze di giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni”; per questo i vescovi – inizialmente 42, arrivati poi nel corso del tempo a 500 – si proponevano di cercare di “trasformare le opere di ‘beneficenza’ in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia”.