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Alcune rivoluzioni distruggono, altre rinnovano

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Rafael Luciani - Aleteia - pubblicato il 11/11/15

Tutto dipende da come agiamo di fronte all'odio

Quando gli aguzzini diventano vittime del proprio sistema, bisogna chiedersi se è possibile parlare di processi sinceri di conversione e cambiamento, perché uno degli effetti della polarizzazione in cui il Paese sociale è stato gettato è quello di farci credere che non è possibile, che non possiamo provare più empatia per chi la pensa diversamente.

In una società divisa a livello ideologico e spezzata moralmente, il male morale oscura ogni pensiero razionale e qualsiasi possibilità di vedere al di là di categorie antagoniste e immediate.

Come l’origine di ogni male è in decisioni e azioni di persone una volta mosse da nobili ideali umani, è anche certo che queste stesse persone possono ancora recuperare la via dell’onestà umana se intraprendono un nuovo cammino di decisioni e azioni mosse dal “bene comune” piuttosto che dalla volontà di sopravvivenza di fronte all’inevitabile caduta del sistema.

Ernesto Che Guevara era un giovane pieno di speranze per la costruzione di un mondo più umano. Era mosso dall’amore per i poveri e dalla lotta per la giustizia sociale.

In lui, tuttavia, è cresciuto il desiderio di ottenerli a qualsiasi prezzo, conquistando il potere politico e imponendo la sua visione.

Ha subito un cambiamento di mentalità, un abbandono progressivo di quegli ideali che lo rendevano un essere umano onesto.

Quando ha partecipato alla Tricontinental nel 1967 è stato capace di dire quello che non aveva mai detto quando era un giovane umanista: “Un rivoluzionario deve optare per l’odio come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare le sue limitazioni naturali e lo converte in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”.

Il Che era cambiato, stava subendo le conseguenze di chi si è lasciato permeare dal male morale e iniziò a giustificare l’ingiustificabile. In base alla sua nuova visione della società, l’altro era un nemico, un danno collaterale.

Non era più mosso dal “bene comune”, ma da quel desiderio disumanizzante di non lasciare al nemico “un minuto di tranquillità, un minuto di calma al di fuori e all’interno delle sue caserme: attaccarlo dovunque si trovi; farlo sentire una belva braccata in ogni luogo in cui transiti”.

Com’è possibile che un uomo che aveva predicato ideali nobili e giusti sia diventato uno degli aguzzini che tanto criticava? Come ha potuto essere trascinato dal desiderio di potere politico in sé ed essere consumato da quel vile sentimento che sfigura ciò che è umano?

L’odio, frutto della polarizzazione, comporta una dinamica psicologica di autodistruzione che si nutre di risentimenti.

Non è, però, una forza naturale negli esseri umani. Ha origine in decisioni personali che tradiscono gli ideali più nobili con pratiche vili e irrazionali. Di fronte all’odio serve una conversione, un cambiamento, ma sarà possibile? Sicuramente sì.

Ne troviamo un esempio nelle prime comunità cristiane. Vivevano clandestinamente e subivano persecuzioni e torture, ma non hanno mai risposto agli aggressori con la stessa moneta.

Hanno capito che l’odio era equivalente a uccidere (1 Gv 3,15). Odiare è rinunciare ad avere qualità di vita, è lasciarsi consumare dall’aggressività e dagli insulti.

Cambiare significa amare chi consideriamo un nemico. Ciò non vuole dire che gli si debba dare affetto, ma che non si deve agire come lui, non bisogna diventare aguzzini e lasciarsi vincere dall’odio.

La depolarizzazione del Paese dipenderà dalla nostra capacità di fermare l’odio e di non lasciare che alimenti i nostri desideri, le nostre parole e le nostre azioni.

Ritrovare la pace politica e la riconciliazione sociale è possibile.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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