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Le domande davanti alle tombe: dove si va a finire dopo la morte?

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Toscana Oggi - pubblicato il 01/11/15

Si avvicina il 2 novembre, come ogni anno tornerò al cimitero a trovare i miei cari. E come ogni volta mi porrò le stesse domande. Dove si va a finire dopo la morte? I resti mortali (l’ho visto riaprendo la tomba di mio padre) si decompongono in pochi anni. Il ricordo resta nelle persone care, ma con il tempo svanisce anch’esso. Gli scienziati studiano l’universo in ogni suo angolo e non hanno mai scoperto nulla che possa somigliare al Paradiso o all’Inferno. Io per fede accetto il mistero ma ogni tanto cerco (credo sia naturale) di capirci qualcosa di più, e rimango dubbioso.
Raffaele Benini

Risponde don Angelo Pellegrini, docente di Escatologia alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.
Sono già stato a far visita ai resti dei miei cari nel cimitero del mio paese: personalmente non amo andarci quando ci sono troppe persone, ho bisogno di silenzio e concentrazione in quei momenti. In più, per motivi pastorali, non posso recarmi in cimiteri diversi da quello in cui faccio servizio liturgico nel giorno della commemorazione di tutti i fedeli defunti. Come il lettore, anch’io porto il fardello di molte domande importanti, sia prima di recarmi al cimitero, che dopo la visita, ma soprattutto durante. E le domande nella mia esperienza si accompagnano ad una dimensione di preghiera, nostalgia e dolore, al ricordo delle sofferenze di cui sono stato testimone e che hanno portato alla morte dei miei cari, o dei miei conoscenti, ma anche le mie sofferenze, acuite anche dal ricordo che nel tempo tende a perdere nitidezza.

Questo è il piano personale ben descritto dal lettore: una dimensione importante da vivere, con sentimenti seri che non vanno trascurati o minimizzati. Poi c’è la dimensione della fede, che talora deve lottare con tutto questo universo di pensieri e sentimenti, il quale può farsi in noi talora caotico: la fede ha lo scopo principale di portare una luce, una speranza, ma anche di far assaporare qualcosa fin da ora, che descriverei come una specie di anticipazione della resurrezione stessa. Il cimitero allora dovrebbe essere proprio questo luogo di esperienza e di preghiera, in cui non ci limitiamo a visitare i nostri cari, ma con essi attendiamo la risurrezione, nostra e loro. I corpi dei nostri cari sono morti; la loro anima non è necessariamente lì dove noi custodiamo decorosamente e rispettosamente le loro spoglie: la troviamo piuttosto nel mistero della comunione dei santi, quando riusciamo a percepire quel tessuto di grazia la quale, come trama dell’opera dello Spirito Santo, ci lega a quella porzione della Chiesa che adesso è al cospetto di Dio o viene purificata in attesa della visione beatifica piena.

Questo non è un luogo; le anime non sono «localizzabili»: per avere un contatto con costoro abbiamo la sola possibilità di immergerci nel mistero di comunione d’amore che in Dio ci costituisce, assieme, Chiesa (celeste, in purificazione, o terrestre). Solo nella preghiera reciproca si percepisce questo legame con tutta la Chiesa, anche quella che priva del corpo attende la resurrezione. Il cimitero, dunque, dovrebbe essere proprio quel luogo di preghiera, di amore, di speranza ove sia possibile quest’incontro, carico della dimensione affettiva tipica delle nostre visite alle spoglie dei nostri cari, ma anche di tutti gli altri defunti.

Questo corpo lo percepiamo sovente in maniera disarmonica rispetto all’anima e a tutta la dimensione spirituale umana, forse perché ne constatiamo il deteriorarsi fino alla decomposizione e al «tornare in polvere» (Gen 3,19).

Eppure il cimitero può anche diventare il luogo in cui recuperiamo l’unità originaria dell’essere umano: Dio (Gen 1-2) fece l’adam bello e buono nella sua interezza e completezza. Al cimitero i segni mortiferi del peccato (morte, decomposizione, ma anche dolore e nostalgia) devono fare spazio, per contrario, all’invocazione della resurrezione come recupero in pienezza della bellezza e bontà del disegno creaturale: attendiamo la resurrezione anche come completamento, come crescita definitiva, per la quale non semplicemente immaginiamo di ricomporre l’unità di anima e corpo, ma immaginiamo compiuto il mistero d’amore su tutta l’umanità. Se riuscissimo un po’ a tenere a bada i sentimenti e la ragione, a volte inceppata in una sorta di cortocircuito, la visita ai resti mortali dei nostri cari defunti potrebbe trasformarsi nell’evento dell’invocazione della comunione con Dio e con tutta la Chiesa e anticipazione anche gioiosa della resurrezione che agli esseri umani, ormai maturi, potrebbe far dire in modo nuovo con Cristo tutto è compiuto (Gv 19,30), nel segno della pienezza ultima.

Questo spiega anche perché per la Chiesa è impossibile un pensiero sulla sorte delle anime che vada nella direzione della reincarnazione o della metempsicosi: l’uomo è una realtà totale, completa integrale; è stato voluto da Dio «bello e buono» nella sua interezza. Nonostante il peccato e la morte, la corporeità resta un valore, una positività da recuperare mediante la fatica dell’essere purificati, anche nella morte o dopo essa. Non sappiamo cosa sia in fin dei conti un corpo risorto (spirituale, bello, leggero, candido, splendente – sono solo alcuni dei termini della Scrittura indicanti comunque un mistero), ma sappiamo che sarà ricostituito integralmente l’essere umano, questo essere umano finalmente maturo nell’amore. E sarà ricostituito dal Cristo risorto e glorificato, che perfezionerà allora la nostra salvezza consegnandoci integralmente alla piena comunione con il Padre e lo Spirito Santo, comunione che egli, Verbo incarnato, già ha conquistato per noi con la sua Pasqua.

Detto questo, non mi pare abbia molto senso, nell’ottica della fede, cercare una specie di luogo fisico «abitato» dai defunti: piuttosto i defunti vanno ritrovati viventi in Dio nell’attesa della resurrezione finale.

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