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Chi ti accarezza quando ti senti indegno

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© Nathan / Flickr/ CC

padre Carlos Padilla - pubblicato il 29/10/15

A nessuno piace suscitare compassione, tranne quando la compassione degli altri diventa l'unica via

A volte sento di non essere degno del suo amore. Non so perché, forse per le mie goffaggini. Resto sul ciglio della strada, aspettando, vedendolo passare. All’improvviso penso che non faccio quello che dovrei fare, di non essere all’altezza di quello che si aspetta da me. Taccio pieno di vergogna. Ho ricevuto tanto, sono così poco generoso.

Allora mi sento escluso dalla Chiesa, da un gruppo, da chi è diverso. Non è questo che mi dice Dio. Egli mi insegna ad amare e ad essere amato. Mi ricorda che sono il suo figlio prediletto. Mi scopre per ciò che valgo e mi fa vedere ogni giorno quanto mi ama.

Gesù ha amato gli esclusi allo stesso modo: “Le mani di Gesù benedicono chi si sente maledetto, toccano i lebbrosi che nessuno tocca, comunicano forza a chi affonda nell’impotenza, trasmettono fiducia a chi si vede abbandonato da Dio, accarezzano gli esclusi. Era il suo stile di curare”.

Questo modo di curare di Gesù mi commuove sempre. Accarezza gli esclusi. Forse mi sorprende perché io non sono così. Io faccio eccezioni, escludo e includo a mio piacimento. Se sapessi curare come curava Lui, toccare come toccava Lui…

Gesù si ferma davanti a me quando mi sento indegno. Mi tocca con le sue mani. Mi abbraccia. Mi accarezza, anche se so di essere indegno. Gesù è passato curando i più disprezzati e si è fermato davanti ai dimenticati. E a me costa accettare tanta misericordia. Non la capisco nella mia vita. Non la capisco nemmeno quando la esercita con gli altri.

Mi sento come il figlio maggiore della parabola del figliol prodigo. Quel padre misericordioso che si commuove e abbraccia felice il figlio che torna pentito e affamato. In fondo a volte mi costa un Dio tanto misericordioso. Che per la tanta misericordia che regala arriva a sembrare ingiusto. Un Dio che abbraccia sempre, che aspetta sempre, che accoglie sempre. Dov’è la giustizia? A ciascuno secondo le sue opere. Perché non è più giusto o non così misericordioso?

Gesù non ha compiuto miracoli dove mancava la fede, ma si è fermato davanti ai dimenticati che credevano nel suo potere. Come il cieco figlio di Timeo, che sapendo che stava passando Gesù gli ha gridato di avere compassione di lui.

Chiede compassione. Disprezzato. Dimenticato. Chiede l’elemosina, vive di carità. Ha il coraggio di gridare. Cerca compassione. Mi ricorda le grida degli scontenti. Le grida di chi non ha casa, denaro, amore, una vita degna. Mi ricorda il grido di chi soffre delle ingiustizie.

Un uomo sul ciglio della strada che chiede compassione è scomodo per chi va di fretta, per chi ha una meta nel suo cammino. A nessuno piace suscitare compassione, tranne quando la compassione degli altri diventa l’unica via, l’unica porta che ci si apre.

Questo cieco è disperato e grida. Spera solo nella compassione di chi lo ascolta. La compassione è diventata l’unica via per la quale lo costringe a passare la necessità.

Chi non ha nulla, chi ha perso tutto, umiliato, solo, accetta come unica via la compassione. Sembra non aver più alcun diritto. Chiede solo giustizia e cerca la compassione dell’uomo. Le grida di chi soffre, le grida dell’abbandonato, danno fastidio, sono moleste.

Le grida di chi chiede cibo, aiuto, misericordia. Sono le grida di tante persone che ci circondano. Di fronte a queste grida possiamo rimanere indifferenti.

Nella bolla della misericordia papa Francesco dice: “Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo”.

È facile passare oltre di fronte al grido di chi soffre. È facile ignorare le sue necessità e far tacere chi esige qualcosa. A volte chi ci chiede l’elemosina ci mette di cattivo umore. Non crediamo alla sua necessità. Sminuiamo la sua cecità. Fuggiamo. Le sue grida ci sembrano eccessive.

A volte preferiamo metterle a tacere. Nessuno che ha bisogno di qualcosa gridi dicendo di cosa ha bisogno. Vogliamo vivere tranquilli, indifferenti, concentrati sulle nostre cose. Sì, così è più facile.

Mi identifico molto con quelli che dicono al cieco di tacere. È il desiderio di non essere scomodato e di non essere distolto dai miei progetti. Non voglio ascoltare un cieco che non posso salvare. Neanche se gli dessi mille elemosine risolverei tutti i suoi problemi. È la mia scusa perfetta per non fare nulla.

Se non posso salvare alcun uomo, allora è meglio restare tranquillo. Se non posso risolvere tutti i suoi problemi, è meglio ignorarlo. È più sicuro, più comodo. Visto che non posso fare tutto, non faccio niente. A volte è la via d’uscita. È ingiusto agire così, ma lo facciamo spesso. Ci adagiamo e non vogliamo essere scomodati.

Gesù, però, si ferma davanti a lui, lo chiama. Quell’uomo disprezzato che nessuno ascoltava e a cui tutti dicevano di tacere: “Molti lo sgridavano per farlo tacere”. Quell’uomo dimenticato viene ascoltato da Gesù. Non solo. Gesù si ferma e lo chiama.

La risposta di Gesù inizia con una chiamata e una domanda: “Gesù si fermò e disse: ‘Chiamatelo!’. E chiamarono il cieco dicendogli: ‘Coraggio! Alzati, ti chiama!’. Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: ‘Che vuoi che io ti faccia?’

Gesù chiede. Si ferma, chiama e chiede. La stessa domanda che porto io nell’anima: “Che vuoi che io ti faccia?” Forse quello che possiamo fare per gli altri è poco. Forse è molto, non si sa mai.

A volte ci poniamo questa domanda: “Cos’altro posso fare per gli uomini? Faccio abbastanza? Non potrei fare di più, dare di più, investire il mio tempo e la mia vita servendo l’uomo che grida sul ciglio della strada? È sufficiente tutto ciò che faccio? Sono dove Dio vuole che io sia? O potrei fare di più da un’altra parte?”

Forse nella nostra vita facciamo molte cose ma non ci sembra abbastanza. Ci siamo mossi. Siamo andati in aiuto del bisognoso. Ma forse c’è ancora molto da fare. Sicuramente potremmo sempre fare di più. L’aiuto a chi ha bisogno non finisce mai. Inizia quando esco da me stesso. Finirà quando saremo in cielo.

Gesù non ha curato tutti i ciechi di Israele. Ha fatto miracoli, ha curato ciechi, malati e indemoniati solo per tre anni. Tre anni al servizio dei più poveri. Giorno e notte. Senza tregua. Perché non ha investito tutta la sua vita? Perché non ha curato più bisognosi?

Gesù non si è fermato davanti a tutti i mendicanti. Non ha restituito la vista a tutti i ciechi, ma ha sempre vissuto cercando il cuore che aveva bisogno della sua misericordia. È stato sempre aperto a chi arrivava da Lui con fede cercando il Suo amore. Non ha avuto barriere né difese. Ha accettato tutti con gioia, con un cuore grande e libero.

La domanda torna oggi nel mio cuore: cos’altro posso fare io? È la domanda a cui nessuno può rispondere per me. Solo io conosco la risposta. Dio e io. Nella parte più sacra della mia anima. Lì so cosa Egli vuole. Non risolvo la questione andando per un po’ in missione, a meno che non sia quello che mi chiede. Non risolvo la cosa facendo opere di carità un’ora a settimana.

Non posso fare tutti i miracoli che mi piacerebbe fare. Non posso restituire la vista a tutti i ciechi. Non posso consolare tutte le persone tristi. È difficile andare al di là di quello che faccio. Anche se posso sempre fare di più, non sarà mai abbastanza. Ma forse è quello che Dio mi chiede di fare.

Gesù non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto fare, e questo mi tranquillizza. Ma questa tranquillità non può portarmi a chiudermi in me stesso.
———

[1] José Antonio Pagola, Jesús, aproximación histórica

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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