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“Papa Francesco è un grande teologo”

Pope Francis kisses a child during a meeting with blind and deaf people – it

AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO

CITE DU VATICAN, Vatican City : Pope Francis kisses a child during a meeting with blind and deaf people at Paul VI audience hall on March 29, 2014 at the Vatican. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO

Lucandrea Massaro - Aleteia - pubblicato il 27/10/15

Intervista con la teologa Stella Morra sulla teologia della misericordia, collegialità nella "Chiesa di Bergoglio"

Il Sinodo si è concluso, e quello che i giornali non hanno colto è l’azione del pontefice non solo come garante “istituzionale” dell’unità della Chiesa, quanto di vero e proprio attore teologico e delle novità importanti che egli sta apportando al dibattito teologico interno alla Chiesa. Ad occuparsi della “teologia della misericordia” di Francesco come metodo e come pensiero sistematico circa la fede, una teologa italiana, Stella Morra, professore associato di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana, l’università dei gesuiti. Su questo tema ha infatti licenziato da poche settimane “Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale” per i tipi delle Dehoniane. Il volume si propone, di “mostrare come la misericordia sia, nel solco del magistero di papa Francesco, una categoria profondamente significativa e operativa dal punto di vista teologico e di immagine e forma della Chiesa”. Aleteia l’ha intervistata.

Professoressa Morra, a ‘valle’ del Sinodo sulla Famiglia emerge una azione del Santo Padre che non è solo quella di una bonaria ‘sensibilità pastorale’ – come molto spesso noi media incaselliamo Bergoglio -, ma una vera e propria azione teologica che ha i piedi ben piantati nella mistica di Sant’Ignazio di Loyola e che dovrebbe far ricredere coloro che – pur riconoscendogli altri meriti – non lo reputavano un teologo all’altezza dei predecessori…

Morra: Certamente! Solo una lettura molto superficiale può confondere il “genere letterario accademico”, da professore, con la sostanza di una pratica teologica che è una comprensione critica, riflessa, che usa tutti gli strumenti dell’intelligenza che Dio ci dona. Questa pratica teologica ha come fine l’assunzione della responsabilità che ci compete come battezzati, pensanti e viventi, nel mondo, secondo il luogo in cui ci è dato di vivere, ed è pratica propria di ogni credente. Il Vescovo di Roma esercita con competenza questa teologia, radicata anche nella pratica del discernimento (scegliere, valutare…) che gli viene dalla formazione come gesuita, insieme ad un’altra caratteristica tipica della tradizione di S. Ignazio: tenere insieme la razionalità e l’immaginazione, come due strumenti entrambi validi (e ben lo vediamo nel suo modo di parlare, creativo e ricco di metafore e esempi immaginifici, appunto…).

Questa forma della teologia, a cui siamo oggi ben poco abituati, è la forma più tradizionale e antica: un sapere, anche sistematico e per alcuni versi molto raffinato, ma che è orientato immediatamente a comprendere e orientare la vita concreta e viceversa dalla vita concreta e dalle sue esigenza impara e si interroga.

Si, questo Papa è un grande teologo e la sua visione d’insieme sta piano piano diventando sempre più evidente dai gesti, dalle parole e dalle scelte, come una ricezione decisa e creativa del grande affresco disegnato dal Concilio Vaticano II.

Da quando Bergoglio è diventato Papa abbiamo imparato un lessico sempre più ricco e vario che si può dire culmina con due locuzioni: “chiesa in uscita” e “chiesa come ospedale da campo” in mezzo – a fare da trait d’union – il concetto onnipresente di “periferia” (tema a cui lei ha dedicato un volume di lectio divina). E’ la Chiesa di “domani”? E in cosa differisce dalla Chiesa di “oggi” e di “ieri”?

Morra: E’ proprio un esempio, ma anche un architrave in qualche modo, di quando stavo dicendo: la questione sulla Chiesa e sul suo “riposizionamento” in relazione alla modernità, non è questione facile, né risolvibile solo a tavolino con delle teorie. Serve una buona “teoria di quadro”, che il Concilio ci ha dato, e poi un riesame attento degli effetti e della realtà prodotta anche dallo stesso Concilio, che riorganizzi e ricomprenda la teoria rilanciandola sempre più avanti e riproponendola alla vita delle chiese concrete. Le espressioni che lei indica sono metafore, immagini che stimolano la creatività degli ascoltatori: la nozione di periferia, ad esempio, sta spingendo molti a riconoscere forme di periferia che forse Francesco neppure pensava, ma sta innescando comunque in tutti un processo virtuoso, e cioè provare a guardare il mondo dalla parte di chi è più debole per imparare a vedere altre cose, ciò che dal centro non si vede. Non è la Chiesa di domani: è la chiesa di oggi e di ieri che non si pensa come un museo che conserva glorie del passato, ma piuttosto come una casa viva, dove anche ciò che è ereditato dai nonni diventa memoria preziosa, ma usata, viva, a volte usata in modo diverso dall’originale, ma sempre con lo stesso scopo, cioè che la casa sia luogo accogliente e felice per chi ci vive e aperta a chi la visita.

Il cambiamento che è evidente non è contrapposizione: piuttosto è correggere ciò che nel tempo si è deformato; nel concreto, mi pare che ciò che Francesco individua come la peggiore “malattia” sia l’autoreferenzialità della Chiesa… quando i figli diventati adulti se ne vanno per la loro strada, ogni casa rischia di richiudersi nei ricordi e di “congelare” la casa in una rigidità che pian piano le toglie ogni vita. Francesco ci dice che ci sono altri piccoli da crescere, che il mondo diventato adulto deve poter andare e venire i questa casa che resta la sua, che la vita è là fuori, nei bisogni, nei desideri, nelle gioie degli uomini e delle donne, che sempre hanno necessità di sapere che una casa del Padre li aspetta, anche quando per molto tempo non ci tornano…

Più di un osservatore ha voluto sottolineare che Francesco è un po’ più il successore di Giovanni XXIII e Paolo VI che non di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e che la questione della collegialità e della sinodalità sia – nelle questioni più ecclesiologiche – la vera cifra di questo pontificato. Concorda? E cosa comporta essere inseriti in una chiesa più o meno collegiale? E quale ruolo può avere il Papa in una chiesa così “orizzontale”?

Morra: Sono d’accordo, a patto che sinodalità e collegialità non siano lette come una sorta di democrazia adattata, “orizzontale” appunto… Francesco ha detto all’apertura del Sinodo che esso si svolgeva cum Petro e sub Petro. La questione è trovare modi e forme attraverso cui ogni persona che fa parte del popolo fedele di Dio tra i popoli possa esprimere a pieno la sua responsabilità e il suo discernimento nel luogo che le compete; la questione è creare le condizioni di possibilità di un popolo tutto regale, sacerdotale e profetico.

Non a caso Francesco sta sottolineando molto come egli stesso sia Vescovo di Roma e come il Vescovo debba camminare a volte avanti, a volte in mezzo e a volte dietro il suo popolo; non a caso come primo atto del suo pontificato ha chiesto che il popolo pregasse su di lui.

Ma la questione che si pone è, anche, la non abitudine che nella pratica ecclesiale abbiamo maturato ad una soggettività, a assumere la responsabilità del nostro essere credenti. La sfida di Francesco è quella a provocare una vita delle chiese concrete più vitale e adulta di fronte e insieme a pastori che lo favoriscano.

Ha senso – e se sì quale – la costante opposizione che viene fatta tra dottrina e misericordia, tra dogma e pastorale? La “misericordia di Dio” non è a sua volta un elemento centrale della dottrina cattolica?

Morra: Certo che sì, ma la questione è proprio questa: la misericordia è parte della dottrina o è piuttosto la dottrina che è una parte dell’esperienza della misericordia ricevuta da Dio e condivisa con i fratelli?

E’ in questa inversione che sta uno dei problemi centrali, come se il criterio principe fosse la dottrina a cui tutto andrebbe sottoposto; l’esperienza cristiana non è una ideologia, una teoria a cui aderire, ma piuttosto una vita reale, conformata a Cristo, una vita sotto il segno della misericordia salvifica di Dio, di cui la dottrina (cioè la comprensione e formulazione di idee e concetti) è una parte, ma non la discriminante.

La domanda a cui siamo chiamati a rispondere è se la fede è vivibile e visibile nella formulazione della dottrina o nell’esperienza di vite salvate che sperimentano misericordia e la moltiplicano nel mondo. Anche quando non sanno (o non sanno ancora) i nomi e i concetti che questa esperienza implica…

In MV 10 Francesco dice che “La misericordia è l’architrave della vita della Chiesa”: non è abbastanza chiaro?

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