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Il prete che ha insegnato al Papa a predicare

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Paolo Pegoraro - Credere - pubblicato il 26/10/15

L’autore dei libri che Francesco ha regalato a Fidel Castro racconta la sua vita, passata a “inquietare i parrucconi”

«Chi conosce il Vangelo finisce col perdere la sicurezza. Soltanto chi lo ignora può ostentare una certa sicurezza». Sembrano parole di papa Francesco, invece sono tratte da Vangeli scomodi, uno dei libri che il Pontefice ha regalato a Fidel Castro durante la recente visita a Cuba. E, sfogliandone le pagine, lo stile pare proprio quello delle omelie di Santa Marta. Forse il suo autore ha suggerito al Papa come predicare? In effetti, quando era a Buenos Aires, il cardinale Bergoglio adoperava i commentari scritti da un altro piemontese, don Alessandro Pronzato, per preparare le sue omelie. E, fatto Papa, non ha esitato a contattarlo. Pronzato oggi ha 83 anni e si è ritirato a Lugano. Tra le tante cose fatte, ricorda la direzione del giornale diocesano di Casale Monferrato e l’insegnamento alle elementari per nove anni: due esperienze che gli hanno insegnato a parlare chiaro.

Poi, l’imprevisto. Una malattia polmonare lo costringe a un lungo ricovero al sanatorio di Pineta di Sortenna, in Valtellina, dove rimarrà a dirigere per vent’anni un centro di spiritualità. Un esilio? Sì, ma provvidenziale. «L’impulso a scrivere è venuto dal non poter fare altro. E il mio vescovo, scrittore anche lui, mi sollecitò a utilizzare questo talento».

Uno dei suoi primi libri, Vangeli scomodi, uscì non senza polemiche…

«Quel libro ha ormai quasi cinquant’anni di vita e tante edizioni, ma dicevano che lo stile era troppo giornalistico. Allora papa Paolo VI, durante un’udienza particolare, mi disse queste testuali parole: “Non badi ai parrucconi! Scriva come sta scrivendo, perché è così che bisogna scrivere oggi”. Quel viatico mi ha accompagnato al traguardo di 135 libri».

Oggi quel libro conta tra i suoi lettori il Papa e Fidel Castro. Com’era nato?

«Pensavo che non bastasse ripetere quello che avevano già detto altri, quindi ho cercato di interpretare il Vangelo secondo schemi nuovi. Bisogna avere il coraggio di fare qualcosa di diverso. E il riscontro l’ho avuto dalle molte lettere di persone non credenti o da chi, sull’orlo del suicidio, confidò che una pagina l’aveva rimesso in piedi… Vado a rileggere quella pagina e mi rendo conto che la Parola non ci appartiene. Io ci metto il cuore e la fatica, perché da tanti anni mi alzo ogni giorno alle 4 del mattino per scrivere, ma non dipende da noi. La Parola va dove il Signore vuole che vada. Certo, non mi sarei mai aspettato questo riscontro con il Papa…»

Che però non è il primo. Papa Francesco le aveva già scritto…

«Due mesi dopo l’elezione mi mandò un mio libro, Un prete si confessa, che non gli avevo mandato io, con questa dedica: “Ad Alessandro Pronzato, suscitatore di inquietudini. Con tanta riconoscenza, Francesco”. Mi disse poi che quando era a Buenos Aires si serviva dei miei commenti ai Vangeli – tradotti in spagnolo – per le sue omelie. Mi conosceva già da tanto tempo, anche se non di persona. E poi, quando è stato fatto Papa, si è fatto vivo lui con me. In seguito sono stato ancora malato e ricoverato d’urgenza, e il Papa mi ha scritto una lunga lettera di suo pugno, invitandomi a reagire e a riprendere l’attività, perché ce n’è bisogno. Infine, prima di andare a Cuba, lui stesso mi ha chiesto se avevo alcuni miei libri tradotti in spagnolo. Gliene ho mandati dieci e lui ha scelto Vangeli scomodi e La nostra bocca si aprì al sorriso, che è un libro su umorismo e fede».

Perché ha scelto proprio questi due?

«Non posso entrare nella mente del Papa! Vangeli scomodi lo avrei scelto anch’io, mentre mi ha sorpreso che abbia scelto quello sull’umorismo».


Eppure Francesco ripete che il cristiano non deve avere una «faccia da funerale»…

«Sì, d’altra parte “umorismo” viene da humus, che significa “terra”, da cui viene anche la parola “umiltà”. Credo che l’umorismo sia una forma di umiltà, che inizia facendo tutto sul serio, ma senza prendersi troppo sul serio. Bisogna imparare a sorridere anche di quelle cose che vengono presentate in una maniera troppo accademica. Ho avuto la piccola fortuna di non aver fatto l’università e tengo sempre davanti a me il principio dell’ingenuità… Cerco di non tener conto di come mi giudicheranno, cerco di essere me stesso totalmente, cerco di mettere tutto me stesso in quello che faccio. Sono innamorato della Parola, scrivo e predico, non prendo altri impegni. E, quando predico, cerco gli occhi delle persone».

Ha dedicato libri anche a padre Pio, che ha definito «una medicina amara». Insomma, non proprio un volto “sorridente”…

«Padre Pio inizialmente non lo potevo soffrire, poi mi sono “convertito” a lui quando ho scoperto che sapeva scherzare. Infatti tra i quattro libri che gli ho dedicato ce n’è uno – Mistero gaudioso – nel quale ci sono aneddoti, frasi, circostanze in cui padre Pio si è rivelato come un umorista eccezionale. Tanto che Carlo Campanini gli diceva: “Lei, se non faceva il prete, poteva fare l’attore!”».

Allora possiamo aggiungere l’umorismo agli indizi di santità? O almeno di sanità?

«Direi di sì! Speriamo che lo inseriscano tra le tante prove richieste! Ma spero soprattutto che nei seminari insistano sul non prendersi troppo sul serio, sul non avere quell’aria musona, supponente e arrogante! Occorre mettersi su un piano di umanità. Per me l’umanità è l’ottavo sacramento».

E le omelie di papa Francesco? Come le sembrano?

«Al di là dello stile e delle immagini che usa, è proprio la sua persona che convince. Il suo modo di porsi e di parlare è già una predica. Io lo chiamo il “Papa delle sorprese”, perché ci fa ciò a cui non siamo più abituati, ma la sua sorpresa è riportarci al Vangelo. Gliel’ho anche detto».

Lo ha incontrato di persona?

«Non ancora. Mi ha invitato già diverse volte, perché vuole conoscermi, ma io sono un po’ pigro e non mi sono ancora mosso. Dovrò decidermi presto ad andare…».

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