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L’insostenibile leggerezza dei database

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 21/10/15

​Luci e ombre nell'accessibilità dei risultati delle sperimentazioni farmaceutiche

di Carlo Petrini

Negli Stati Uniti, in Europa e in altre parti del mondo si stanno adottando, ormai da alcuni anni, politiche per rendere pubblicamente accessibili i dati delle sperimentazioni cliniche. È questo un orientamento molto positivo. Esso si presta a molte considerazioni. Una in particolare merita attenzione: prendendo spunto da uno studio recentemente pubblicato sulla rivista «PLoS One», si deve essere consapevoli che occorre cautela nell’interpretare i dati pubblicamente disponibili.

Si faccia un passo indietro: con una legge federale statunitense, nel 1997, si istituì il registro Clinicaltrials.gov e si stabilì che, dal momento dell’entrata in funzione, vi dovessero essere inserite tutte le nuove sperimentazioni cliniche. Il registro fu inaugurato nel 2000 e segnò una tappa importante nella trasparenza, anche verso i cittadini, della sperimentazione clinica.
Gli autori dello studio pubblicato in «PLoS One» hanno preso in considerazione le sperimentazioni condotte negli Stati Uniti nel periodo tra il 1972 e il 2012 con finanziamenti pubblici e riguardanti l’effetto dei farmaci o degli integratori alimentari nel trattamento e nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.
Il risultato è sorprendente: il 57 per cento delle sperimentazioni pubblicate prima del 2000 mostrava significativi effetti benefici dei farmaci o degli integratori, mentre soltanto l’otto per cento delle sperimentazioni pubblicate dopo il 2000 mostra effetti analoghi.
Steven Novella, noto non solo per le sue ricerche in campo neurologico, ma anche per il suo impegno nell’ambito dello scetticismo scientifico come membro del Committee for Skeptical Inquiry, definisce i risultati dello studio «incoraggianti», ma anche «un po’ inquietanti»: sorge spontaneo pensare che prima della registrazione fossero più facili e frequenti le manipolazioni dei risultati da parte dell’industria, per evidenti interessi commerciali. È probabile che, purtroppo, ciò avvenga.
Tuttavia, molto probabilmente la spiegazione non è (solo) questa: infatti, secondo i dati elaborati nello studio pubblicato in «PLoS One», la co-sponsorizzazione da parte dell’industria non pare correlata in modo significativo al fatto che i risultati siano positivi. Inoltre, non vi sono sensibili differenze metodologiche tra studi condotti prima e dopo l’entrata in vigore dell’obbligo di registrazione. Infatti, le sperimentazioni, in genere, seguono metodologie scientificamente rigorose: il vaglio preventivo che i comitati etici devono dare alle nuove sperimentazioni che vengono proposte è utile per garantire non solo l’eticità, ma anche la scientificità degli studi.
Dunque, pressioni commerciali e miglioramenti metodologici hanno certamente influito, ma, da soli, non giustificano il cambiamento. Secondo Veronica Irvin della Oregon State University, coautrice dello studio, i risultati indicano, probabilmente, che l’obbligo di registrazione abbia indotto a un maggior rigore nel riportare i risultati. In altre parole, l’obbligo di registrazione costringerebbe gli scienziati a dichiarare, a priori, metodi e obiettivi e, a posteriori, tutti i risultati ottenuti: sarebbe, quindi, frenata la tentazione, tipica per lo scienziato, di “piluccare” tra i risultati soltanto quelli che meglio corrispondono a ciò che egli sperava di trovare.
Tutto ciò induce non solo a riflettere sulla deontologia dei ricercatori, ma anche a trarre una lezione per i cittadini: occorre cautela nell’interpretare i dati pubblicamente disponibili delle sperimentazioni. L’obbligo di registrazione nel database pubblico è stato, giustamente, salutato come un ulteriore passo verso una maggiore trasparenza, ma vi sono insidie per gli osservatori poco attenti: per esempio, gli autori dello studio pubblicato in «PloS One» segnalano che limitandosi a leggere titolo e riassunto di una sperimentazione si può essere indotti a pensare che i risultati siano positivi, ma, approfondendo, spesso si constata che la rilevanza clinica è scarsa.
Inoltre, i dati devono essere inseriti nel contesto. Rimanendo ancora al caso descritto in «PLoS one», le differenze tra i risultati delle sperimentazioni condotte prima e dopo l’inizio del secolo possono avere anche un’altra spiegazione: negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso le azioni di prevenzione cardiovascolare erano scarse, mentre da alcuni anni si attuano misure di prevenzione efficaci. L’efficacia di tali misure è tale da rendere ormai difficili ulteriori miglioramenti mediante nuovi farmaci o integratori: ciò può essere una delle spiegazioni dei risultati ottenuti dopo il 2000.
La disponibilità pubblica del database è, dunque, un valore, ma l’utilizzo deve essere prudente. Alla domanda se il database governativo assolva il suo ruolo di trasparenza nella ricerca clinica, Robert Roth, direttore medico del Weinberg Group, risponde: «Una delle esigenze del pubblico del XXI secolo sembra essere l’accesso a questo genere di dati, ma attenzione, la gran parte delle volte si tratta di dati non utili per il pubblico e potenzialmente fuorvianti».

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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