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Il Sinodo dei vescovi si rivoluziona?

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Gian Franco Svidercoschi - Aleteia - pubblicato il 15/10/15

La lettera al Papa dei tredici cardinali accende il dibattito sull'organismo creato 50 anni fa da Paolo VI

Ha appena compiuto cinquant’anni, l’età giusta per entrare nel pieno della maturità. Tra pochi giorni, il 17 ottobre, e proprio nel mezzo della seconda assemblea sulla famiglia, il Sinodo dei Vescovi ricorderà solennemente l’anniversario. E non poteva esserci un’occasione migliore, per fare un bilancio, per verificare se i risultati siano stati conformi alle “intenzioni” del Concilio Vaticano II. Ma anche per capire verso dove potrebbe andare, sotto l’impulso di Francesco, questa istituzione. Tenendo conto, comunque, delle forti critiche che i tredici cardinali, firmatari della recente “lettera” al Papa, hanno mosso alle nuove procedure introdotte nel processo sinodale.

Sarà perciò interessante ascoltare la relazione del cardinale Christoph Schönborn e, a maggior ragione, il discorso finale di papa Bergoglio. Ma già ora, ripercorrendo questi cinquant’anni di storia, vediamo se si possa dare una prima risposta agli interrogativi – due specialmente – che per tutto questo tempo hanno pesato, come macigni, sul cammino del Sinodo dei Vescovi. E, più ancora, sulla sua funzione, sul fatto stesso di essere stato creato per attuare la collegialità episcopale.

Di qui, appunto, il primo interrogativo. Il Sinodo dei Vescovi venne istituito per permettere realmente al corpo episcopale di avere anch’esso voce, una voce più influente, nel governo della Chiesa universale? Oppure, come sostiene ancora oggi qualche critico, fu il frutto della visione ecclesiologica di Paolo VI, “liberal” all’esterno, e invece, dentro, estremamente rigido, contrario ad allentare il controllo sul potere centrale?

A una prima impressione, restando alla superficie, molti particolari sembrerebbero avallare la seconda ipotesi. Fu Montini, infatti, a gestire tutto in prima persona. Eletto Papa da pochi mesi, e prima ancora che si riaprisse il Vaticano II, il 21 settembre del 1963 se ne uscì con quell’annuncio clamoroso: “…Quando il Concilio ecumenico mostrasse desiderio di vedere associato, in un certo modo e per certe questioni, in conformità alla dottrina della Chiesa e alla legge canonica, qualche rappresentante dell’episcopato, particolarmente tra i presuli che dirigono una diocesi, al Capo supremo della Chiesa stessa…”.

Il linguaggio, anche un po’ tortuoso, sembrava quello antico di un Papa-Re; eppure conteneva l’annuncio di qualcosa di rivoluzionario, e del quale oltretutto non c’era il minimo cenno nello schema sull’ufficio pastorale dei vescovi. La cosa spiazzò talmente i padri conciliari che il successivo dibattito non portò a grandi novità. Si discusse sul grado rappresentativo che, del collegio episcopale, il nuovo organismo avrebbe dovuto assumere. Si discusse sulla sua struttura. Una nuova Congregazione? Un “Sacro Collegio della Chiesa universale”? Ma alla fine tutti si trovarono d’accordo nell’esprimere semplicemente il desiderio che venisse costituito un “Consiglio” centrale di vescovi.

Se ne sarebbe riparlato quando lo schema, dopo la revisione, fosse ritornato in aula. Passarono due anni, e il 14 settembre del 1965, nel discorso d’apertura del quarto e ultimo periodo del Vaticano II, il Papa prese nuovamente tutti alla sprovvista. Preannunziò la creazione di un “Sinodo dei Vescovi”, composto di presuli nominati per la maggior parte dalle Conferenze episcopali. E il giorno dopo, presentatosi inaspettatamente in aula, Paolo VI assistette alla promulgazione del motu proprio “Apostolica sollicitudo”, con il quale erigeva un “Consiglio stabile di vescovi per la Chiesa universale, soggetto direttamente e immediatamente alla nostra autorità…”. Avrebbe avuto una competenza solo consultiva, a meno che il Pontefice stesso non gli avesse conferito un potere deliberativo.

Ebbene, per scoprire quale fosse il vero obiettivo della strategia pontificia, bisognerà rileggere attentamente alcuni passi degli interventi di Paolo VI: “…non sarà sicuramente la Curia romana a farvi opposizione (cioè, opposizione al nuovo organismo – ndr), ché anzi essa sentirà accresciuti l’onore e l’onere del suo sublime e indispensabile servizio”; “…in particolar modo (il Sinodo – ndr) potrà essere utile al quotidiano lavoro della Curia romana, a cui dobbiamo tanta riconoscenza per il suo validissimo aiuto”. Insomma, soltanto così, soltanto leggendo tra quelle righe, si potrà finalmente capire come Montini avesse dovuto condurre una estenuante battaglia con il fronte conservatore. Per questo, aveva preso l’iniziativa. Per questo, aveva “pilotato” personalmente l’intera vicenda. Riuscendo così a neutralizzare il tentativo della Curia di affossare, prima ancora che nascesse, la nuova istituzione.


Il secondo interrogativo scaturiva inevitabilmente dalla natura stessa del Sinodo. Non era certo un “piccolo Concilio”, come alcuni vescovi cercarono di accreditarlo, forzando il senso del motu proprio. Ma, avendo un carattere semplicemente consultivo, poteva considerarsi effettivamente una forma collegiale di esercizio della suprema potestà nella Chiesa? Nell’assemblea sinodale del 1969, il patriarca dei Maroniti, P. P. Meouchi, fu durissimo. “…La sola voce consultiva riduce il vescovo alla stregua di un qualsiasi teologo o esperto laico, privandolo di un modo concreto e reale di esprimere la sollecitudine pastorale che gli deriva in forza della consacrazione”.

Ma, nella pratica, è stato davvero così? A parte il fatto che, se il funzionamento del Sinodo è stato spesso incerto o anche macchinoso, ciò dipendeva piuttosto dalle carenze stesse di una collegialità mai completamente accettata, mai profondamente vissuta, né dall’episcopato né da Roma; a parte questo, si può affermare onestamente che la natura consultiva del nuovo organismo ne abbia limitato l’influsso sulle decisioni dei Pontefici e, quindi, sulla vita e la missione della Chiesa?

Le conclusioni del Sinodo del 1974 sono sfociate in quel magistrale documento pastorale di Paolo VI che è statal’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi”. Il Sinodo del 1985 ha portato alla luce i tanti ritardi nella attuazione dei documenti conciliari. Il Sinodo del 1991 ha rappresentato, dopo la caduta del Muro, il momento della riconciliazione e della ritrovata unità fra le due Europe. E poi ci sono stati i Sinodi che hanno proposto all’attenzione della Chiesa universale le situazioni e i problemi dei vari continenti; e i Sinodi che hanno approfondito alcune questioni più urgenti, dalla catechesi alla nuova evangelizzazione, dalle tematiche riguardanti sacerdoti e religiosi al ruolo dei laici. E niente, di tutto questo, è finito nei cassetti del dimenticatoio; ma si è tradotto – più o meno bene – in linfa vitale per la comunità cristiana.

Questa è la storia passata. Ma adesso c’è una nuova storia che si spalanca sull’orizzonte ecclesiale. Il duplice Sinodo sulla famiglia ha segnato una svolta sul piano del funzionamento, del metodo di dibattito (il nuovo metodo, appunto, criticato dai tredici cardinali firmatari della “lettera”) e, questo soprattutto, per la consultazione che è stata aperta all’intero corpo dei fedeli laici. Ed è una svolta che potrebbe non fermarsi qui, essere il preludio a un cambiamento strutturale del Sinodo. Per farlo diventare – come ha detto il suo segretario generale, il cardinale Lorenzo Baldisseri, riferendo il pensiero di papa Francesco – “una modalità centrale nel cammino di tutta la Chiesa a tutti i livelli, non solo della gerarchia ma di tutto il popolo di Dio…”.

Fosse davvero così, sarebbe già una mezza rivoluzione.

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