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Se Gesù entrasse nell’aula del Sinodo

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©Mazur/catholicnews.org.uk

Il Sismografo - pubblicato il 11/10/15

I «lobbisti delle agende», i codici dialettici e la dinamica del Vangelo

di Gianni Valente

Il Sinodo sulla famiglia è iniziato da una settimana, e per certi versi sembra docilmente intento a eseguire lo spartito confezionato nei mesi di pre-tattica dai «lobbisti delle agende». Si percepiscono le manovre più o meno dissimulate di chi è entrato in Sinodo con l’intenzione di farne una partita di politica ecclesiastica. Mentre molti appaiono concentrati a posizionarsi rispetto alla griglia dei mantra e dei codici dialettici offerti in dotazione attraverso i media («bisogna coniugare misericordia e verità», «la dottrina non può cambiare», «bisogna curare le ferite», «valorizziamo il ruolo della donna», «comunque gli africani respingeranno la colonizzazione dell’ideologia gender»).

Così, nessuno batte ciglio quando nell’aula o nei testi sinodali si scolpiscono affermazioni inesorabili e convinzioni perentorie, che pure appaiono lontane dalla dinamica nuova entrata nel mondo col Vangelo, che la Chiesa suggerisce con la sua predicazione da 2mila anni.

Uno di questi assiomi dalla meccanica tipica delle clausole contrattuali si trova per esempio nellaRelatio del cardinale Peter Erdö. In quel testo letto in apertura del Sinodo, il Porporato ungherese cita il paragrafo 41 dell’Instrumentum Laboris sinodale, dove proprio riguardo agli incontri evangelici di Gesù con la samaritana e l’adultera, si dice letteralmente che in quegli episodi Gesù, «con un atteggiamento di amore verso la persona peccatrice, porta al pentimento e alla conversione (“va’, e non peccare più”), condizione per il perdono».

Ora, nel punto in cui pone la conversione come condizione previa del perdono, l’Instrumentum Laboris sinodale sembra quasi rovesciare il dinamismo proprio dell’esperienza cristiana, dove è semmai il perdono di Cristo che rende possibile riconoscere davvero e fino in fondo il proprio peccato, sentirne dolore, piangerne e convertirsi. È questo l’evento inaudito di salvezza che san Paolo descrive nella Lettera ai Romani: «Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5, 6-11).

Anche il Vangelo di Luca, quando racconta l’incontro di Gesù con la peccatrice perdonata e le reazioni dei farisei (Lc 7, 36-52), riporta le parole del Signore, che perdona i peccati di lei non davanti a una dichiarazione di previa conversione, ma per i gesti d’amore che lei ha avuto nei suoi confronti, baciandolo, rigandogli i piedi con le sue lacrime, cospargendolo di olio profumato: «Le sono perdonati i suoi molti peccati» dice Gesù a Simone il fariseo «poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». E poi aggiunge, rivolto a lei: «”Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?”. Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!».

La stessa dinamica raccontata da san Paolo e descritta da san Luca si ritrova in incontri e parole che attraversano tutto il Vangelo. È quella dinamica nuova, imparagonabile ai modelli delle dottrine religiose e dei codici morali partoriti dall’umanità nel corso della storia, che la Chiesa racconta agli uomini e alle donne da 2mila anni, nel suo camminare nella storia. Lo diceva anche l’allora cardinale Joseph Ratzinger, a Giubileo del 2000 già iniziato, per spiegare cosa muoveva in quel tempo giubilare la Chiesa a chiedere perdono per le colpe del passato: «È la certezza del perdono che permette la franchezza della confessione. Se non c’è il perdono che cosa rimane? Anche il peccato non ha più una spiegazione e possiamo forse trovare rifugio nella psicoanalisi per ridare pace alla nostra anima abbattuta. Mi sembra invece che solo il perdono, il fatto del perdono, permetta la franchezza di riconoscere il peccato».


È il perdono assaporato o almeno presentito come promessa nelle nostre vite che fa fiorire anche il dono gratuito del dolore dei peccati e quindi della conversione. Che nell’esperienza cristiana è sempre anch’essa una grazia da accogliere con gioia e gratitudine, e non l’effetto di un proprio sforzo di coerenza con una disciplina, o – peggio – di auto-purificazione, come dovrebbe sperimentare chiunque si avvicina al confessionale. La sorgente della conversione è il gesto gratuito del Signore sulle nostre vite, e non un presunto, ancestrale «senso del peccato» di cui occorrerebbe riattivare a tutti i costi il meccanismo colpevolizzante, nel mondo confuso e spappolato in cui ci troviamo a vivere. Nell’esperienza cristiana, la percezione stessa dei propri peccati si desta davanti all’amore gratuito di Cristo, quando ci accorgiamo di averlo tradito, e non come senso di mancata sintonia rispetto a una qualche concezione antropologica o a un qualche codice morale. Come accadde a Pietro, che pianse lacrime di purificazione solo quando incrociò lo sguardo misericordioso di Gesù, nel cortile della casa del sommo sacerdote.

Anche al Sinodo, l’unica chance per relativizzare le operazioni delle conventicole organizzate e la collezione di asserzioni e posizionamenti astratti, è quella di guardare con sguardo cristiano elementare le dinamiche dell’agire moraleche configurano la vita familiare. Tale sguardo ha sempre riconosciuto che nella condizione storica concreta, segnata dal peccato originale, tutti gli uomini sono feriti in naturalibus, nelle proprie facoltà naturali. E quindi, alla lunga e nel vissuto concreto, con tutti i suoi condizionamenti, può annebbiarsi – e di fatto si annebbia – anche il riconoscimento di ciò che sarebbe naturalmente evidente.

Un tale sguardo, realista e pieno di speranza nei doni della grazia, aiuterebbe ad affrontare in modo diverso anche la lista delle «questioni calde», a partire dall’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati. E sgombrerebbe il campo anche dal simulacro ideologico della «famiglia cattolica perfetta», compiaciuta della propria robustezza alimentata a dosi di teologia del matrimonio, da spendere sul fronte delle «battaglie culturali» anti-relativiste. Un simulacro evocato anche da chi mostra insofferenza per l’immagine di «Chiesa ospedale da campo» che si china a «curare le ferite», e dice che bisogna pensare ai sani, non soltanto agli ammalati.

Ecco: uno sguardo cristiano alla vocazione e alla missione della famiglia, invece di dividere il mondo in «sani e malati», potrebbe far tesoro dell’esperienza quotidiana per cui noi mortali non siamo capaci mai di manifestare pienamente la fedeltà di Dio, il quale è fedele anche se il popolo è sempre infedele. Uno sguardo cristiano potrebbe far tesoro dell’esperienza di tanti matrimoni «sani» e «riusciti», dove si tocca ogni giorno con mano che la fedeltà per tutta la vita è di fatto impossibile senza l’aiuto della grazia di Dio. E quando ciò accade, c’è solo da ringraziare il Signore in ginocchio, piangendo di gioia, per un grande dono (per-dono) che non si è meritato.

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