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Il paradosso di papa Francesco: è più della somma delle parti che amiamo di lui

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ALBERTO PIZZOLI / AFP

Pope Francis blesses a baby as he greets the crowd during an audience with the Societa Sportiva Lazio at Paul VI audience hall on May 7, 2015 at the Vatican. AFP PHOTO / ALBERTO PIZZOLI

Matthew Becklo - pubblicato il 27/09/15

San Francesco, ha scritto G.K. Chesterton, può essere compreso in tre modi.

Il primo è come un uomo che “ha anticipato tutto ciò che è più liberale e simpatetico nello stile moderno: l’amore per la natura; l’amore per gli animali; il senso di compassione sociale; il senso dei pericoli spirituali della prosperità e perfino della proprietà”.

Il secondo è come un uomo delle stigmate e dei teschi, un ascetico che ha sottolineato la liturgia e la mortalità – “una figura oscura come San Domenico”.

Il terzo è entrambe le cose.

Chesterton affermava che per comprendere davvero Francesco com’era – e non come vogliamo che sia – dobbiamo affrontare due aspetti: “gioia e austerità”. Dobbiamo vedere l’uomo de I Fioretti di San Francesco, il cui attivismo radicale era inseparabile dalla sua fede. Francesco guardava il mondo con grande amore, ma si negava anche piaceri fondamentali. Come molti grandi santi, la sua passione per il creato era nutrita dai sacramenti. Il suo Cantico dei Cantici parla della “madre terra” e di “frate vento”, ma anche della “sora nostra morte corporale” e del “peccato mortale” (“guai” a quelli che moriranno in quella condizione). Alcuni ridurrebbero la compassione di Francesco all’eccentricità personale; la maggior parte la dilaterebbe fino a lasciare poco spazio per qualsiasi altra cosa, ma Francesco era quello che era: non uno stoico religioso o un hippy secolare, ma un pazzo per Cristo.

L’analisi di Chesterton non dovrebbe essere lontana dalla nostra mente mentre papa Francesco, primo pontefice ad adottare questo nome, visita gli Stati Uniti. Gli americani sono persone pragmatiche – ci piace spezzare le cose in due e metterle al proprio posto, soprattutto in politica –, per cui non sorprende di trovarci nello stesso dilemma binario con Francesco. I liberali vi vedono una “boccata d’aria fresca” per una Chiesa alla rovescia, un papa progressista che (nonostante alcune inevitabili posizioni di “estrema destra”) si preoccupa dell’ambiente, ci mette in guardia contro il capitalismo sregolato e dichiara “Chi sono io per giudicare?” Nel frattempo, i conservatori lodano la leadership di Francesco in tema di famiglia, semplicità e dignità umana, ma respingono le sue inclinazioni di “estrema sinistra” come fallibili nella migliore delle ipotesi, pericolose nella peggiore.

Una delle più grandi ironie dell’era digitale è che produce echi con la velocità con cui produce informazioni oggettive, e in America queste due spinte relative a Francesco rimbalzano senza fine. Vediamo un Francesco a cui è permesso di dire troppo poco, svuotato della sua anima religiosa, o un Francesco a cui è permesso di fare troppo poco, isolato dalla sua piena espressione. Ciascun aspetto ci offre una parte della sua missione, ma non il quadro intero; ciascuno prende un pezzo di legna e lo definisce una foresta.

Ma andare al di là dei titoli e trovare le sue interviste e le sue encicliche è trovare un uomo che – come il santo, come Gesù stesso – non si preoccupa troppo delle vacche sacra politiche. Anche definirlo “l’ultimo outsider di Washington” è fuorviante, perché lo inserisce ancora nell’orizzonte della nostra vita politica. Peter Leithart ha ragione quando dice che Francesco non si limita a trascendere la nostra politica: “opera in un universo intellettuale e morale piuttosto diverso” – “quello della Chiesa”.


Questo è il genio di papa Francesco, che si nasconde in bella vista: “pensare con la Chiesa”. In senso letterale, significa continuità con i suoi predecessori teologici. Forse il più grande punto cieco nella copertura di Francesco è che, in sostanza, tutto ciò che ha detto si allinea con Benedetto XVI e con Giovanni Paolo II. Nelle sue interviste, Francesco ha anche sottolineato che pensare con la Chiesa significa pensare con “tutti i fedeli”, non solo con i teologi. Con dichiarazioni come questa, non stupisce che papa Francesco sia stato definito “il papa della gente”. Più di qualsiasi altro pastore nella storia recente, ha l’odore delle sue pecore.

Ma pensare con la Chiesa significa anche imparare a vedere attraverso le false contraddizioni del mondo. In superficie, la Laudato si’ riunisce punti di vista sociali fortemente diversi – giustizia per i poveri, abolizione dell’aborto, lotta ai cambiamenti climatici, sospetto nei confronti del “paradigma tecnocratico”. Il suo primo discorso americano, pronunciato alla Casa Bianca, non è stato diverso, promettendo il suo sostegno a tutto, dall’istituzione del matrimonio alla piaga dell’immigrazione. Questa disinvoltura nei confronti degli opposti permea la Chiesa, che esalta sia la fede che la ragione, la giustizia e la misericordia, la verità e l’amore senza mai soccombere alla mentalità “o/o”. “La Chiesa non solo ha tenuto affiancate cose apparentemente incompatibili”, ha scritto Chesterton, “ma ha permesso loro di manifestarsi in una sorta di violenza artistica altrimenti possibile solo agli anarchici”.

Queste tensioni potrebbero rimanere tali se non fosse per il paradosso ultimo che guida alla loro unità. Con la gioia del Vangelo e del Dio fatto uomo, San Francesco si è sentito chiamato ad amare chi non si poteva amare, a diventare un canale di pace e libertà e a morire al sé come un chicco di grano, che solo quando muore porta frutto. Questo è il messaggio; non era non controverso allora, non lo è adesso e non lo sarà mai. E papa Francesco è in America per fare una cosa e una cosa soltanto: seguire quelle antiche orme e invitarci a “venire e vedere”.

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Matthew Becklo è un marito e padre, filosofo amatoriale e commentatore culturale di Aleteia e Word on Fire. I suoi scritti sono apparsi su First Things, The Dish e Real Clear Religion.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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