di Lucetta Scaraffia
Mentre statistiche e studi confermano l’allontanamento delle donne giovani dalla Chiesa e la crisi delle vocazioni femminili si sta facendo sempre più seria, soprattutto per quanto riguarda le congregazioni di vita attiva, le parrocchie sembrano funzionare solo grazie al volontariato femminile.
Sono infatti donne di mezza età, o decisamente anziane, quelle che si occupano del catechismo, dell’assistenza, e spesso anche degli aspetti economici e burocratici della vita parrocchiale. Un piccolo esercito di donne che, dal ruolo tradizionale di collaboratrici per la cura del luogo di culto e dei suoi annessi, ha allargato i suoi interventi a settori molto più qualificati della vita parrocchiale, innanzi tutto l’insegnamento catechistico.
Questa forte presenza femminile, ormai essenziale per il funzionamento della Chiesa sul territorio, fa riflettere. Ne ha colto le necessarie e possibili conseguenze Giuliano Zanchi, nell’ultimo numero della «Rivista del clero italiano», con la proposta, proprio a partire da questa ormai indispensabile collaborazione, di dare nella vita della Chiesa uno spazio più ampio di tipo decisionale e consultivo alle donne.
A vedere i dati a cui si è accennato all’inizio, la proposta agli occhi di molti sacerdoti può sembrare coraggiosa. In realtà arriva molto in ritardo, forse troppo, per garantire alla Chiesa la collaborazione delle giovani.
Sicuramente l’intenzione di don Zanchi è buona, anzi ottima, ma che il suo testo arrivi in ritardo rispetto alla realtà è dimostrato anche da un altro fatto: nel suo articolo non cita neppure un libro scritto da una donna, anche se certo li conosce, ma solo saggi di uomini, come Armando Matteo e Ivan Illich. È per lo meno curioso che, nell’affrontare un tema sul quale le donne hanno scritto tantissimo — affrontando la questione da ogni punto di vista, e avanzando tante proposte concrete di cambiamento — non si sia fatto riferimento a nessuna di loro, ma si sia preferito parlare di un libretto di taglio sociologico e di un interessante studio antropologico (ma vecchio di mezzo secolo), scritti entrambi da uomini. È un dato di fatto rivelatore, che dice molto sull’invisibilità delle donne nel mondo dei chierici.
E rivela anche un atteggiamento che, pur mascherato, rimane inevitabilmente paternalistico. Come paternalistica è la conclusione finale: le donne tengono in piedi le parrocchie, quindi meritano di essere prese in considerazione.
Bisogna però capire perché le donne non sono state citate. Le teologhe ormai sono tante — presenti ora non simbolicamente anche nella Commissione teologica internazionale — e dicono apertamente che, se «maschio e femmina Dio li creò» facendoli «a sua immagine e somiglianza», l’immagine di Dio è anche femminile. E la rilettura dei testi sacri da parte di molte studiose, cattoliche e protestanti, ma anche di studiosi più avvertiti, ha fatto riscoprire un aspetto finora ignorato, se pure sotto gli occhi di tutti: l’atteggiamento rivoluzionario di Gesù nei confronti delle donne, e la loro straordinaria importanza nei vangeli.
In sostanza, negli ultimi decenni nella cultura cristiana è maturata una vera e propria rivoluzione culturale, che non si può più ignorare, e che trasforma completamente il ruolo della donna dalle fondamenta. Le donne hanno ogni diritto di partecipare da pari alla vita della Chiesa.
Peccato che di questa rivoluzione nulla arrivi nei seminari; peccato che le omelie dei sacerdoti, spesso aride e noiose, non tengano mai presenti queste novità; peccato che nei corsi universitari cattolici lo studio dell’esegesi femminile sia sempre marginale e facoltativo, quando c’è.
Allora, finché non ci saranno donne che insegnano nei seminari e finché i futuri preti non avranno modo di avere rapporti con figure femminili autorevoli e più sagge di loro, il rapporto fra donne e preti rimarrà sempre prigioniero del paternalismo. Un paternalismo ormai inaccettabile agli occhi delle giovani di oggi.
Riconoscere alle donne il ruolo dovuto nella vita della Chiesa non significa però solo promuovere le più preparate e meritevoli, significa anche eliminare tutte quelle forme di servitù — è stato Papa Francesco a parlare della confusione fra servizio e servitù — in cui soprattutto le suore vengono confinate.
Non sono poche: moltissimi vescovi e prelati, ma anche molti parroci, hanno al loro servizio delle religiose, quasi sempre provenienti da Paesi del Terzo mondo, che li aiutano nella vita quotidiana. Potrebbe non esserci niente di male se quelle suore mangiassero alla stessa tavola dei preti, anche quando ci sono ospiti, e venissero presentate come parte della “famiglia” e non fossero solo serve mute e silenziose. Nei seminari poi molte sono le religiose che svolgono i lavori domestici e i seminaristi quindi hanno rapporti quotidiani solo con donne che li servono: un imprinting che li segnerà per la vita.
Nel numero di settembre di «donne chiesa mondo» — disponibile sul sito dell’Osservatore Romano — una bella intervista a due suore sarde, in origine addette al servizio nei seminari, e poi “promosse sul campo” come guide spirituali e figure non secondarie anche nello studio dei seminaristi mostra che molte religiose potrebbero esercitare questi ruoli, ricordando e insegnando con il loro esempio che Gesù si presentava a servizio dell’umanità. E non cercava certo l’affermazione personale e il potere.
Il posto per le donne si può trovare senza tante rivoluzioni. Per quanto riguarda gli organismi della Curia romana non sembra impossibile trovare soluzioni per superare norme giuridiche che sono fondate su consuetudini a volte nemmeno tanto antiche, allargando progressivamente lo spazio per la presenza laicale in un mondo che si è molto clericalizzato in tempi piuttosto recenti.
La scandalosa emarginazione nella quale si trovano le donne consacrate — che costituiscono l’ottanta per cento del numero complessivo dei religiosi — si potrebbe poi ovviare aumentando le funzioni di istituzioni già esistenti. In ogni Paese vi sono già organismi che riuniscono le congregazioni religiose femminili: perché non dare loro un maggiore spazio e ruoli decisionali più efficaci d’intesa con le conferenze episcopali? Sarebbe il minimo nei confronti di donne che, con la loro attività e la loro preghiera, tengono in piedi la Chiesa. E altrettanto si potrebbe pensare a livello centrale, a Roma.
Introdurre docenti donne nei seminari, superare le norme più clericali, utilizzare meglio istituzioni già esistenti: non sono certo misure rivoluzionarie, ma potrebbero già cambiare qualcosa. A condizione, naturalmente, che si voglia porre fine a una mentalità che avalla la servitù interna, ben diversa dal servizio.
E a condizione, ovviamente, che le donne non siano più considerate come invisibili. Con il risultato di ricordare su questo tema un vecchio libro di Illich — che del resto non riguarda affatto il problema del ruolo delle donne nella Chiesa — piuttosto che i testi opera delle donne stesse. Magari anche per discuterli, contraddirli, criticarli.
Tutto è meglio del silenzio che nega l’esistenza e la voce, trasformando inevitabilmente ogni proposta, anche se ottima, in una misura dal sapore paternalistico. E soprattutto, come si è detto, ormai fuori tempo massimo.