Intervista al canonista Vincenzo Pacillo sul Motu proprio di Papa Francesco sul matrimonio religiosoIl Motu proprio che Papa Francesco ha voluto emanare per riformare il diritto canonico nella sua parte relativa al matrimonio e alle sue cause di nullità è un argomento che non appassiona soltato i giuristi laici o cattolici, ma che avrà un peso nella vita di quei fedeli che si troveranno nella condizione di una unione sponsale fallita. Per capire meglio uno degli aspetti più innovativi e controversi del nuovo codice di diritto canonico, quello relativo alla cosiddetta “mancanza di fede”, Aleteia si è rivolta al professor Vincenzo Pacillo, docente di di Diritto Canonico ed Ecclesiastico presso l’Università di Modena e Reggio Emilia ed è “Difensore del vincolo” presso il tribunale ecclesiastico regionale emiliano.
Professor Pacillo, con l’espressione “mancanza di fede” nel Motu proprio il Papa vuole introdurre un nuova capo di nullità che punta a riconoscere nulli i matrimoni con persone atee o con disparità di culto? Per mancanza di fede si può intendere anche l’esclusione solo parziale di uno o più dogmi della Chiesa cattolica (non legati alla sacralità del vincolo coniugale)? In che modo, alla luce del diritto canonico e del contenuto del Motu proprio, possiamo escludere con certezza che quella espressione non potrà essere interpretata in senso restrittivo?
Pacillo: L’espressione “mancanza di fede” mi sembra fortemente evocativa del dibattito pluridecennale che la scienza canonistica ha ingaggiato sull’eventuale nullità del matrimonio per simulazione contro la dignità sacramentale dello stesso. Sono ormai molti anni che dottrina e giurisprudenza dibattono sulla validità di matrimoni canonici in cui i nubendi escludono la dimensione sacramentale degli stessi, ritenendo la celebrazione un momento esclusivamente mondano e rifiutando allo stesso tempo che essa possa generare un’Alleanza nell’amore che costituisca segno e strumento di salvezza. Mi pare di poter dire che a tale fattispecie si ricolleghi la prospettata simulazione “per mancanza di fede”: e che pertanto tale espressione vada considerata entro i confini posti dal Magistero e dalla giurisprudenza rotale alla rilevanza dell’esclusione della dignità sacramentale. E così il giudice non potrà non considerare quanto chiaramente evidenziato da San Giovanni Paolo II nel suo discorso alla Rota Romana del 30 gennaio 2003: ““un atteggiamento dei nubendi che non tenga conto della dimensione soprannaturale nel matrimonio, può renderlo nullo solo se ne intacca la validità sul piano naturale nel quale è posto lo stesso segno sacramentale”. Secondo il Pontefice, la “mancanza di fede” rileva come causa di nullità del matrimonio solo quando si riverbera sulla dimensione naturale dello stesso, comportando un’esclusione della donazione esclusiva, ovvero dell’indissolubilità, della fecondità e/o della genitorialità educante. Per cui il giudizio sulla fede dei nubendi non può essere teorico o legato ad astratti indici che si intromettano nella loro coscienza, ma deve fondarsi sulla loro concreta decisione – al momento delle nozze – di rispettare o non rispettare quanto stabilito dalla Chiesa in tema di indissolubilità, fedeltà reciproca, procreazione ed educazione della prole.
Il Papa riconosce una “mancanza” diffusa nella preparazione pastorale dei coniugi alle nozze, è possibile immaginare che il “sensus fidei” dei fedeli si sia affievolito sull’importanza capitale dell’accesso al sacramento e che dunque sia questo che il Papa vuole mettere in luce?
Pacillo: Il Codice stabilisce al can. 1063, che i pastori sono tenuti all’obbligo di prestare assistenza “mediante la quale lo stato matrimoniale perseveri nello spirito cristiano e progredisca in perfezione”. Si specificano le vie che la Chiesa ha tracciato per questo: la predicazione, la catechesi ai minori, ai giovani e agli adulti; un adeguato uso dei mezzi di comunicazione sociale; la preparazione personale al matrimonio; una celebrazione liturgica del matrimonio, che manifesti il senso del sacramento; l’aiuto agli sposi per condurre una vita familiare ogni giorno più santa e più intensa.
Appare chiaro dal Codice che “la preparazione al matrimonio costituisce un dovere grave sia dei pastori, sia, direttamente, degli sposi”. Dovere che impone ai pastori di interpretare lo Jus connubii non come “una pretesa soggettiva che debba essere soddisfatta dai pastori mediante un mero riconoscimento formale, indipendentemente dal contenuto effettivo dell’unione. Il diritto a contrarre matrimonio presuppone che si possa e si intenda celebrarlo davvero, dunque nella verità della sua essenza così come è insegnata dalla Chiesa. Nessuno può vantare il diritto a una cerimonia nuziale” (Benedetto XVI, Discorso alla Rota del 22 gennaio 2011). In altre parole, la richiesta del sacramento del matrimonio non comporta una risposta scontata ed automatica: la celebrazione del matrimonio canonico è un diritto al quale si affiancano doveri precisi da parte dei nubendi e dei pastori, primo tra tutti il dovere di impartire e di ricevere una preparazione adeguata, capace di evidenziare le proprietà essenziali del matrimonio-sacramento, impartita da soggetti idonei a suscitare un autentico discernimento vocazionale. A nostro avviso spetta al Vescovo vigilare sulla corretta ed effettiva ottemperanza a tale dovere, il cui rispetto costituisce la prima e principale via per evitare il fallimento matrimoniale.
Mancanza di fede può essere inteso come “fede immatura”, incapace dunque di illuminare la volontà e quindi di generare quel “consenso” alla base del vincolo matrimoniale?
Pacillo: Il 29 gennaio 2009, rivolgendo il Discorso ai Giudici della Rota, il Papa Emerito Benedetto XVI ricordava alcuni punti fondamentali della teoria canonistica di San Giovanni Paolo II sul matrimonio, ed in particolare alcune sue precisazioni di carattere giuridico. Prima tra tutte la distinzione tra maturità psichica e maturità canonica; poi quella tra incapacità e difficoltà, sviluppata sulla base della constatazione che «solo l’incapacità, e non già la difficoltà a prestare il consenso e a realizzare una vera comunità di vita e di amore, rende nullo il matrimonio». Infine Benedetto XVI riprendeva , la distinzione tra la dimensione canonistica e la dimensione clinica di “normalità”, giungendo cosi’ a separare la «capacità minima, sufficiente per un valido consenso» dalla la capacità idealizzata «di una piena maturità in ordine ad una vita coniugale felice»”.
Le parole di San Giovanni Paolo II, riprese in modo assai incisivo da Benedetto XVI, avevano essenzialmente lo scopo di mettere in guardia contro una riconduzione eccessiva dell’ “immaturità” entro il novero delle cause di natura psichica che non permettono di assumere gli obblighi essenziali del matrimonio, o addirittura entro il gruppo di quelle patologie psichiche capaci di minare gravemente la discrezione di giudizio circa i diritti e i doveri matrimoniali essenziali da dare e accettare reciprocamente. Non occorre essere pienamente maturi per contrarre un matrimonio valido, sembrano dirci i due Pontefici, e le difficoltà di ottemperare ai doveri giuridici che nascono dal negozio sponsale non possono essere considerate rilevanti nel processo di nullità, giacche’ il libero arbitrio consente a ciascuno – magari con impegno – di farvi fronte.
Queste parole, tuttavia, non chiudono affatto la porta al riconoscimento di situazioni nelle quali l’immaturità, sia di carattere psichico che di carattere affettivo, possa ed anzi debba essere in grado di minare la validità del matrimonio canonico. E’ lo stesso Benedetto XVI ricordare che il concetto di capacità “fa riferimento al minimo necessario affinché i nubendi possano donare il loro essere di persona maschile e di persona femminile per fondare quel vincolo al quale è chiamata la stragrande maggioranza degli esseri umani. Ne segue che (…) una vera incapacità (…) è sempre un’eccezione al principio naturale della capacità necessaria per comprendere, decidere e realizzare la donazione di sé stessi dalla quale nasce il vincolo coniugale”.
Leggendo questa frase all’inverso, e’ facile evidenziare come Benedetto XVI abbia messo in relazione la capacita’ di esprimere un valido consenso matrimoniale con la comprensione, la decisione e la realizzazione di un vero e proprio atto di oblazione gratuita di se stesso all’altro coniuge. Credo che oggi la questione dell’immaturità si ponga nel senso di interpretare i numeri 2 e 3 del canone 1095 alla luce del contesto personalistico che connota il nuovo diritto matrimoniale canonico: di qui l’idea di definire concetto di “capacita’ canonica” non solo attraverso gli strumenti offerti dalla diagnosi degli psichiatri o dai manuali di psichiatria, bensi’ alla luce della necessita’ di discernere con chiarezza quando la personalità dell’individuo sia pronta ad una vera, reale, sincera donazione di tutto se stesso diretta a creare un’alleanza di amore, ovvero quando esistano dei disordini di personalità che rendono di fatto inesistente tale donazione, impedendo ad uno o ad entrambi i nubendi di elaborare compiutamente quella progettualità di comunione che e’ elemento essenziale del bonum coniugum.