Un piccolo dietro le quinte sulla nascita di “Dono e Mistero”Da tempo volevo raccontare questa storia su Giovanni Paolo II. Ma, ogni volta che ci provavo, o mi bloccavo subito o non riuscivo ad arrivare alla fine. E questo per un comprensibile senso di pudore, dato che la storia riguarda sì il Papa ma indirettamente anche me, e perciò non me la sentivo di mettermi in mezzo. Ma adesso, mi sono deciso. Ho pensato che fosse giusto far conoscere questa vicenda, perché ci rivela una volta di più quanto fosse caldo il cuore di Karol Wojtyla, e quanto profonda la sua umanità, la sua attenzione al prossimo. “L’altro mi appartiene”, aveva scritto in un suo documento.
Tutto era cominciato nella primavera del 1996. Il 1° novembre sarebbe stato il 50° dell’ordinazione sacerdotale di Wojtyla; e l’allora segretario della Congregazione per il Clero, mons. Crescenzio Sepe (oggi cardinale e arcivescovo di Napoli), aveva insistito perché il Papa desse una sua testimonianza, descrivendo il percorso umano e spirituale che lo aveva portato a decidere di farsi sacerdote. Una decisione – va ricordato – presa nel pieno della bufera della Seconda guerra mondiale, scoppiata proprio con l’invasione della Polonia da parte delle truppe naziste. Avevano avuto coraggio, molti amici di Karol, a entrare nell’esercito clandestino. Ma era stato ugualmente un gesto coraggioso, quello di Wojtyla, scegliere in quel momento di diventare ministro di Dio.
La prima idea era stata quella di un libro-intervista. Venni scelto io probabilmente perché, avendo raccontato pochi anni prima l’amicizia tra Karol e il suo amico ebreo Jerzy Kluger, avevo studiato a fondo il periodo giovanile di Wojtyla. Decisi però di non seguire semplicemente lo schema dell’intervista. Senza scartare le domande, preparai un grande scenario storico, che avrebbe inquadrato quegli anni polacchi così drammatici, e all’interno del quale il Papa avrebbe raccontato la propria esperienza. E avrebbe ricordato, una ad una, le più di cento persone che avevano avuto un qualche influsso nella sua decisione: maestri, guide spirituali, santi, cardinali, vescovi, pensatori, amici, famigliari, e perfino l’uomo incaricato di far brillare le mine nella cava di pietra di Zakrzowek, dove Karol aveva dovuto lavorare per non finire in un campo di concentramento.
Terminato lo schema preparatorio, mons. Sepe ed io fummo invitati a pranzo dal Papa. Aveva sul tavolo il mio dossier, e mi fece molte domande perché non era ancora del tutto convinto di quell’iniziativa. Poi, entrando nei particolari, mi chiese da dove avessi saputo (perché lui non se lo ricordava) che il giorno in cui era andato dalla Solvay al seminario per annunciare la sua intenzione di farsi prete, aveva tenuto ai piedi gli zoccoli da lavoro. “I suoi amici, Santo Padre”, gli risposi. E lui se ne convinse, al punto che anni dopo, in uno dei viaggi in Polonia, dirà improvvisando ai giovani di Cracovia: “Ma lo sapete che io passavo di qui, la mattina presto, tornando dal lavoro, e anche d’inverno portavo gli zoccoli?”. Si convinse per gli zoccoli, ma, quel ch’era più importante, si convinse a scrivere il libro. “Lei farà da narratore, e io cercherò di ricordare, da testimone, anche con dei semplici flashes”. E così fece durante l’estate, un po’ scrivendo e un po’ dettando al registratore.
Intanto, però, avvenne inaspettatamente un cambio di programma. Alcuni autorevoli monsignori vaticani si imposero sulla volontà stessa del Papa (a quel tempo succedeva ancora così!) e decisero che il libro sarebbe apparso come opera esclusiva di Giovanni Paolo II, eliminando perciò sia il narratore sia lo scenario e le domande. Inutilmente cercai di spiegare che il racconto pontificio andava contestualizzato, e che, certe osservazioni critiche, avrei potuto farle più facilmente io. Niente! Non solo mi risposero di no, ma mi trattarono con poco rispetto per il mio lavoro (e questo era il meno) e per la mia persona. Giovanni Paolo II riuscì a vincerla solo su un punto: chiese che, nella introduzione, si facesse riferimento alle mie domande, servitegli come filo conduttore per la riflessione. Anche se, delle domande, non c’era più traccia, o c’era solo indirettamente.
Faccio un esempio, per far capire la differenza tra le due versioni. Se fosse stato seguito il primo progetto, il libro sarebbe cominciato con il racconto della notte che Karol aveva passato insonne alla Solvay, per l’attesa del grande momento. Poi, arrivato il mattino, e senza cambiarsi, una camicia lisa, calzoni color grigio e gli zoccoli ai piedi, era uscito dalla fabbrica, e, come sempre, si era fermato in una chiesa lungo la strada per assistere alla Messa. Stavolta, però, invece che andare a casa, si era diretto verso il centro di Cracovia. Le SS che pattugliavano le vie non avevano neppure fatto caso a quell’operaio che camminava a testa bassa, tutto preso dai suoi pensieri. Al seminario, Karol si era fatto ricevere dal rettore e gli aveva chiesto di venir ammesso come candidato al sacerdozio.
A quel punto, c’era la prima domanda, sul perché di quella scelta. E la stessa domanda, invece, diventò l’incipit della versione definitiva. “La storia della mia vocazione sacerdotale?”. Forse il mio giudizio, qui, non sarà del tutto obiettivo; ma non mi piacevano quell’interrogarsi e quel rispondersi del Papa, tutto da solo. E comunque, “Dono e mistero” fu un libro straordinario. Straordinario perché Karol Wojtyla svelò come avesse maturato la decisione di essere, non certo uno della casta clericale, ma un “adoratore” di Dio, amministratore dei suoi misteri e, insieme, suo testimone tra gli uomini. E straordinario, “Dono e mistero”, perché era la prima volta che un Papa si raccontava. Raccontava i suoi sentimenti, i suoi pensieri più intimi, più nascosti.
E ora arriviamo al momento centrale della storia, al motivo per cui ho voluto farla conoscere.
Passarono due anni. Due anni durante i quali Giovanni Paolo II aveva governato la Chiesa, girato il mondo, visto decine di personaggi e milioni di persone. Poteva ricordarsi della vicenda che aveva fatto da “contorno” alla pubblicazione di “Dono e mistero”? Anch’io, del resto, avevo digerito il torto che mi avevano fatto. Ero perfino riuscito a mettere una pietra sopra al modo davvero poco cristiano, poco misericordioso, ma, prima ancora, poco umano, con il quale quei potenti monsignori mi avevano trattato.
Nel frattempo, avevo scritto un libro sugli anni polacchi di Karol Wojtyla. Chiesi di offrirgliene una copia, e potei farlo un mercoledì, alla fine di una udienza generale in piazza San Pietro. Arrivò il mio turno, mi avvicinai al Papa per consegnargli il libro. E lui, immediatamente, mi mise una mano sulla spalla e guardandomi negli occhi mi disse: “Lo sa? Io prego per lei ogni giorno”. Le persone lì vicino rimasero di stucco, e mi guardarono un po’ stupite e un po’ imbarazzate. Qualcuno forse avrà pensato che io fossi un gran peccatore, oppure che avessi avuto una qualche disgrazia in famiglia. Ma, il più sorpreso e scioccato di tutti, ero naturalmente io. Sentivo che il Papa, con gli occhi più ancora che con le parole, voleva trasmettermi qualcosa, però non riuscivo a capire. Così, non sapendo che dire, me ne uscii con una battuta che, a ripensarci oggi, era proprio stupida: “Santo Padre, mi basta che lei preghi per me un giorno sì e uno no, e io andrò ugualmente in Paradiso…”. E Giovanni Paolo II, interrompendomi: “No, ogni giorno! Pregherò per lei ogni giorno! Si ricordi: ‘Dono e mistero’!”.
Soltanto allora capii, mentre il cuore mi esplodeva. Il Papa voleva farmi sapere la sua solidarietà per quanto mi era accaduto due anni prima. Senza polemiche. Senza criticare nessuno. Senza entrare nei particolari. E tuttavia, citando il titolo del libro, voleva dirmi che non aveva dimenticato. E mi ringraziava.
Ecco, questo era Karol Wojtyla!