Educatore del ‘900 italianodi Massimo Borghesi*
Don Luigi Giussani, uno dei più grandi – forse il più grande – tra gli educatori dell’Italia del ’900, è morto nel 2005. Sono trascorsi dieci anni. Pochi dal punto di vista temporale, eppure molti se si considera la velocità con cui, ormai, avvenimenti personaggi mode cadono rapidamente nell’oblio.
Per questo occorre chiedersi: il suo pensiero, la sua prospettiva formativa, sono ancora attuali? Sono in grado di oltrepassare la soglia del nuovo millennio così diverso da quello precedente? Vero è che l’educatore Giussani fu in grado di intercettare due generazioni di giovani, molto diverse tra loro: quella studiosa ed esistenzialista del dopoguerra, quella contestataria ed ideologizzata del post-’68. Epperò la generazione della caduta di tutte le evidenze, scettica e senza futuro, appare tremendamente lontana da quelle, impegnate, del secolo passato.
Una generazione non aprioristicamente ostile verso la religione, eppure infinitamente distante da essa. L’anno scorso Alberto Savorana ha mandato in stampa, per Rizzoli, una monumentale biografia dedicata al sacerdote di Desio. Si potrebbe pensare che rappresenti una sorta di sigillo su una testimonianza ormai conclusa, definita nel tempo e nello spazio. In realtà leggendola si rimane colpiti non solo da una grande vicenda biografica segnata in profondità dalla fede ma, altresì, dalla chiarezza di un giudizio storico la cui pertinenza non è venuta meno. Si tratta della riflessione, profetica, che Giussani svolge a ridosso del ’68 quando percepisce, con una intensità senza pari, che la cristianità è finita, che non è più possibile affidarsi alla tradizione per educare i giovani alla fede.
Se nel 1954, allorché inizia la sua avventura educativa al liceo Berchet di Milano, l’invito era quello di riscoprire la ricchezza inesplorata e ignota della tradizione cristiana ora non rimaneva che l’annuncio evangelico veicolato da un “incontro”, una testimonianza umanamente significativa della fede nel mondo. Una prospettiva, questa, pienamente condivisa da Ratzinger-Benedetto XVI e dall’attuale pontefice. Come dirà ne Il senso della nascita, il suo colloquio del 1980 con Giovanni Testori: «Questo è il tempo della rinascita della coscienza personale. È come se non si potessero fare più crociate o movimenti, … crociate organizzate; movimenti organizzati». È quanto ribadirà nel 1981, dopo il referendum che sanciva la vittoria della legge sull’aborto in Italia: «Ecco questo è il momento in cui sarebbe bello essere solo dodici in tutto il mondo». Vale a dire: è un momento in cui si ritorna all’inizio, perché è stato dimostrato che la mentalità non è più cristiana. Il cristianesimo come presenza stabile, consistente, e perciò capace di “tradere” (tradizione, comunicazione), non c’è più».
Il colpo di genio, di fronte ad una secolarizzazione radicale che stava divorando le proprie premesse umanistico-religiose, stava qui nel non attardarsi in una reazione, in un mero moto di difesa volto al ricompattamento della fortezza assediata. La vocazione dell’educatore era indirizzata, oltre che al mondo cattolico, particolarmente ai “pagani”. La sua prospettiva educativa, che sarà alla genesi di Gs prima e di Cl poi, era indirizzata ai lontani, al mondo e non solamente alla Chiesa. Gettato in mare aperto, in una realtà per lo più ostile, sostenuto da una trama di amici, il cristiano era chiamato a “incontrare” gli uomini del proprio tempo, ad offrire loro il dono gratuito di un’umanità diversa. Dentro questo mare il cristiano è colui che, agostinianamente e patristicamente, non ha una fissa dimora, non ha una patria stabile, non è consegnato a progetti egemonici. Il che non significava, certo, disinteresse per la città degli uomini, per l’impegno pubblico – che stante la distinzione tra l’impegno diretto dei singoli e quello indiretto delle comunità e della Chiesa – era volto al bene comune. Significava, però, che l’accento doveva cadere su Cristo, sull’ ”incontro” cristiano aperto a tutti, e non primariamente sui “valori” cristiani.
Come affermerà nel 1982: «Fino a quando il cristianesimo è sostenere dialetticamente e anche praticamente valori cristiani, esso trova spazio e accoglienza ovunque. Ma quando il cristianesimo è annunciare nella realtà quotidiana, sociale, storica, la presenza permanente di Dio diventato uno tra noi – Gesù Cristo presente nella sua Chiesa – oggetto di esperienza come la presenza di un amico, di un padre, di una madre, orizzonte totale che plasma la vita, ultimo amore, centro del modo di vedere, di concepire e di affrontare la realtà tutta, senso e scaturigine di ogni azione, allora esso non ha patria».
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*Massimo Borghesi è ordinario di Filosofia Morale all’università di Perugia
Articolo originariamente edito su Il Sussidiario
Un giudizio, questo, che, a fronte della riduzione etica del cristianesimo contemporaneo, interamente posizionato sui “valori” cristiani, consente di comprendere il punto di sintonia tra Giussani e il papa della Evangelii gaudium. Consente di comprendere l’ “attualità” di don Luigi Giussani a dieci anni dalla morte.