Il fatto straordinario che ha portato alla beatificazione di suor Eusebia Palomino Yenes
E’ forse il più “curioso” miracolo riconosciuto dalla Congregazione delle cause dei santi, quello attribuito all’intercessione di suor Eusebia Palomino Yenes, tanto da aver richiesto analisi e perizie inconsuete nella secolare storia dell’organismo vaticano, oltre ad approfonditi studi di natura teologica. Al centro dell’evento prodigioso c’è un quadro raffigurante la stessa suor Eusebia, commissionato sin dal 1980, ma realizzato soltanto tre anni dopo.
Per il 1982, infatti, era prevista nella diocesi di Huelva, nel sud-ovest della Spagna, l’apertura dell’inchiesta canonica sulla vita e le virtù della religiosa. In vista di questa cerimonia, la superiora del collegio salesiano, madre María Luisa Aparicio, aveva pensato di onorare la consorella mediante un dipinto che ne perpetuasse il ricordo e aveva individuato come esecutore il rinomato maestro locale Manuel Parreño Rivera (familiarmente chiamato Manolo).
La proposta di madre Aparicio lo aveva in un primo momento lusingato, ma con il passare dei mesi erano sorti in lui molti dubbi. Con schiettezza, Parreño Rivera confidò: “Io ero a quel tempo una persona del tutto aliena dalle cose di religione e anche piuttosto contrario a quella mentalità miracolistica, tanto che arrivavo a mettere in discussione perfino i miracoli narrati nel Vangelo. Tutto quel contesto giunse a urtarmi, tanto che mi sentii indotto a rifiutare l’incarico e a prendere il fermo proposito di non eseguirlo”.
Amalia Becerro Parreño, cugina di Manolo, si incaricò di insistere, e intanto “ogni domenica, visitando il cimitero, pregavo suor Eusebia di ammansire il cuore di mio cugino, perché si decidesse a dipingere il quadro”. Il 27 marzo 1983, domenica delle Palme, riuscì a ottenere un’esplicita promessa: il pittore le garantì che avrebbe iniziato il lavoro il Giovedì santo, 31 marzo, approfittando del periodo delle vacanze scolastiche, durante il quale non avrebbe dovuto insegnare.
Nel pomeriggio del 30 si recò nello studio di Parreño Rivera l’amico Luciano Llanes Méndez, per portargli la cornice dorata che si era impegnato a regalare se il pittore avesse deciso di realizzare il ritratto di suor Eusebia: “La tela corrispondeva perfettamente alle misure della cornice. Faccio notare che io vidi la tela alle 5 di pomeriggio del mercoledì: non era neppure preparata per la pittura, ma soltanto fissata ai legni del telaio”.
Verso le 9:30 di mattino del Giovedì santo, ha testimoniato la signora Josefa Cejudo Ramírez, moglie del pittore, Manolo uscì di casa e le disse: “Finalmente ho deciso di dipingere il quadro della monaca, perché manca poco tempo alla traslazione dei resti; vediamo se finalmente mi lasceranno in pace. Non sarà finito per la data che desiderano, ma almeno l’avrò iniziato”.
La vicenda si stava trasformando quasi in una prova d’orgoglio, in una sfida personale. Lo ha rivelato lo stesso pittore, il quale, ponendosi davanti alla fotografia in bianco e nero che gli avevano dato come modello, sbottò: “Ormai non mi rimane il tempo necessario per dipingerti. Vediamo un po’ se sono vere tutte quelle cose che mi raccontano dei tuoi miracoli e fa in modo che io ti dipinga. Anche se con questa ‘faccia da tonta’ non credo che mi potrai servire a qualcosa”.
Verso le dieci del mattino il pittore si mise al lavoro: “Per le prime due ore tutto fu normale, e perfino pensai che grazie alla mia perizia stava risultando un’immagine di suora in parte secondo il modello, in parte come io la stavo configurando. Iniziai a macchiettare la figura, cioè a ricoprire la tela con alcuni colori, se non esattamente uguali almeno affini; quanto la tela fu completamente impregnata di quella macchiettatura, sarebbe stato logico continuare il giorno seguente, perché il secondo e il terzo strato di colore che vengono sovrapposti possono fondersi con il primo. Ma, notando che la pittura si stava solidificando più del solito e mi consentiva di procedere senza attendere il tempo richiesto per l’essiccazione dei vari strati, incominciai a sentirmi come fuori di me. Due ore e mezzo dopo quella osservazione, cioè quattro ore e mezza dopo aver iniziato a dipingere, rimasi di fatto estremamente sorpreso perché mi resi conto che il quadro era completamente finito. Non occorreva più alcun ritocco e il ritratto corrispondeva all’immagine della fotografia, con un realismo che la superava alquanto”.
Intorno alle due e trenta del pomeriggio, Parreño Rivera uscì dallo studio e, a German che gli chiedeva come andasse il quadro, rispose che non soltanto era finito, ma che era del tutto asciutto. Il ragazzo entrò nella stanza e vide il dipinto completato. Poi il pittore si recò a casa, dove trovò i coniugi Marín Martín, giunti da Palma de Mallorca. Prosegue il racconto della moglie. “Aprendo la porta, gli chiesi: ‘Hai iniziato il quadro?’. ‘E’ finito’. Avendo ospiti a pranzo, non uscii immediatamente per vederlo; ma dopo aver pranzato dissi: ‘Manolo, andiamo a vedere il quadro’. E ci recammo allo studio Angelita Marín Martín, suo marito e io con Manolo; ma egli non entrò e si fermò in auto. Si giustificò dicendoci che era troppo impressionato per salire un’altra volta a vederlo”.
Nel 1997 un’accurata indagine venne effettuata direttamente sul ritratto a cura del dottor Nazzareno Gabrielli, direttore del Gabinetto di ricerche scientifiche dei Musei Vaticani. Il quadro venne sottoposto a radiografia – che rivelò una realizzazione “con pennellate veloci e sicure senza indecisioni o significativi ripensamenti: soltanto la mano manifesta un’indecisione nella sua impostazione sul libro che sorregge” – e fu fotografato con la fluorescenza ultravioletta e con la radiazione infrarossa. Venne poi analizzato il solvente dei colori, che dall’analisi spettrofotometrica infrarossa risultò olio di lino, e furono svolte prove di essiccazione dei pigmenti puri e mescolati fra loro. Nella relazione riassuntiva, Gabrielli ha potuto dichiarare che “le mescole, pur avendo tempi di essiccazione variabili, risultavano asciutte soltanto il giorno successivo” e che “non sono stati rilevati siccativi inorganici a base di piombo né organici a base di acetone”.
Come ha successivamente chiarito nella sua perizia il pittore Amedeo Brogli, “nel 1983 non esisteva ancora in commercio la Liquina, essiccativo a base di resina alchidica (combinazione di alcool e acido), che ha di molto ridotto i tempi di essiccazione dei colori a olio senza alterarne e depauperarne le caratteristiche peculiari”. Inoltre, “se il pittore avesse usato come diluente l’acqua ragia, lo strato di colore sarebbe stato più leggero, trasparente in alcuni punti, e dopo qualche anno si sarebbe formato sulla mestica (la miscela di preparazione per le pitture e olio, nda) un effetto craquelure (screpolatura). Se l’autore invece avesse usato come diluente l’acetone, questo avrebbe aggredito lo strato di colore in modo imprevedibile, degradandolo in breve tempo”. Le definizioni conclusive sull’evento sono state formulate dalla Consulta tecnica della Congregazione delle cause dei santi nella seduta del 22 novembre 2001: “Tutti i componenti, qualificati esperti in materia, ritengono straordinario il rapidissimo essiccamento dei colori usati senza l’uso di sostanze essiccanti. Viene esplicitamente dichiarata l’impossibilità del verificarsi dell’essiccamento nel breve periodo di quattro ore e mezzo durante il quale è stata completata l’opera pittorica a olio, tenendo anche conto che i colori – benché sovrapposti in più strati – non si sono tra di loro mescolati. Il fatto accaduto presenta quindi i requisiti della inspiegabilità tecnica”.