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Dare un corso e un limite alle cose non è limitarsi moralisticamente

Sea shell with pearl on sand © Africa Studio / Shutterstock – it

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don Fabio Bartoli - La Fontana del Villaggio - pubblicato il 20/08/15

Una potente catechesi a partire dall'inno dei Vespri del Lunedì

La letteratura è una forma di conoscenza, al pari della teologia o della filosofia, ma procede in un modo diverso: anziché tentare di analizzare e definire i concetti ne coglie il valore simbolico. Questo modo di procedere, se perde qualcosa in termini di esattezza, guadagna però moltissimo in termini di suggestione e di concretezza vitale. Un concetto una volta analizzato è morto, sezionato su un tavolo operatorio non ha più niente della vita. Un simbolo invece più lo scruto e più diventa vivo e fecondo tra le mie mani, suggerendo sempre nuovi sviluppi e approfondimenti. Il simbolo cresce con me mentre lo medito.

Questa forma di conoscenza ovviamente è inadatta là dove l'esattezza analitica e il rigore logico sono necessari, ad esempio nella teologia dogmatica o nel diritto canonico, ma è molto più ricca e feconda dove invece entra in gioco la concretezza della vita umana, come nella spiritualità e nella teologia mistica.

Così oggi con voi vorrei applicare questa forma di conoscenza e andare a caccia di simboli, più che di concetti, come se dovessimo seguire una pista in un bosco, attingendo alla Bibbia, ma anche alla letteratura, alla poesia, alla psicologia, insomma a tutto ciò che è conoscenza dell'uomo. Ho scelto come “preda” in questa caccia metaforica un testo che conosciamo sicuramente molto bene, che recitiamo ogni settimana: l'inno dei Vespri del Lunedì (nella forma italiana del Breviario).

O immenso Creatore,
che all'impeto dei flutti
segnasti il corso e il limite
nell'armonia del cosmo

Tu all'aspre solitudini
della terra assetata
donasti il refrigerio
dei torrenti e dei mari.

Irriga o Padre Buono
i deserti dell'anima
con i fiumi di acqua viva
che sgorgano da Cristo”

1) Il corso e il limite

La prima cosa che dobbiamo fare per iniziare questa caccia è abbandonarci alla suggestione, alla forza evocativa delle parole. Lasciare le rigide regole dell'esegesi e avventurarci in terre incognite permettendo alle parole, nella loro nudità, di suscitare echi dalle fonti più varie: la letteratura, la psicologia, la filosofia, la Bibbia stessa…

O immenso Creatore,/ che all'impeto dei flutti/ segnasti il corso e il limite/ nell'armonia del cosmo”. Questi versi mi sono sempre sembrati bellissimi: il Dio immenso, cioè senza misura, crea ponendo un corso e un limite, ossia dà alle cose una misura, e in questo modo le fa esistere: tutto esiste in armonia perché ha un corso e un limite, cioè una direzione e un significato: il corso, la direzione della tua vita è il senso per cui esisti ed è al tempo stesso il tuo limite, ciò che ti definisce.
Senza questo corso che è il senso della tua vita e la tua vocazione (che è anche una pro-vocazione, appello, chiamata, responsabilità… perché diversamente dalle cose tu esisti nella libertà) tu non saresti. Sono chiamato, dunque sono, e tanti saluti a Cartesio.

Le cose dunque, ed ancor di più le persone, una volta che hanno ricevuto da Dio la loro vocazione ed il loro limite non si limitano a genericamente ed indiscriminatamente essere, ma il loro essere diventa un esistere, un essere-per. E nel caso delle persone questo essere-per porta con sé una responsabilità, cioè una abilitas-a-rispondere.

Il tuo futuro definisce il tuo presente, non viceversa. Tu non sei chi sei e nemmeno chi sei stata, nello sguardo di Dio tu sei innanzitutto chi sarai, perché tu non sei la tua storia, ma la tua vocazione.

E poi ci sono i flutti, cioè l'acqua, il mare… biblicamente il mare è il simbolo del caos primordiale, è l'acqua oscura su cui aleggiava lo Spirito Santo prima della Creazione. Mi fa pensare a tutto ciò che si agita in noi, nell'inconscio, alle forze immense, incontrollate e vitali, che sorgono dal profondo, alle spinte contraddittorie che sembrano tirarci in ogni direzione.
Il mare è vita e morte al tempo stesso, è ciò che nessuno può regolare, nessuno può rinchiudere. È l'archetipo dell'inconscio, tremendum et fascinans. D'istinto ti fa paura, sai che è pericoloso lasciarsene afferrare e trasportare, eppure… eppure al tempo stesso senti che fondersi con esso significa entrare in comunione con il tuo intimo più intimo: “homme libre, toujours tu cheriras la mer!” (Baudelaire).

Così due atteggiamenti opposti sono possibili di fronte al mare: rifiutarlo e tentare di sottometterlo o accettarlo ed abbandonarsi ai suoi flutti.

Due atteggiamenti che mi sembrano incarnati da Achab e Santiago, i protagonisti di “Moby Dick” e de “Il vecchio e il mare”, due storie di lotta, di guerra. Due uomini in lotta contro il mare e le sue forze, ma in modo diverso: Achab che vuole sottomettere il mare e vede nel grande capodoglio il male assoluto, il nemico del genere umano: “E sulla bianca schiena dell'animale egli scaricò la somma della rabbia e l'odio provati dalla propria razza; se il suo petto fosse stato un cannone, egli, egli gli avrebbe sparato contro il suo cuore”. E Santiago, che invece uccide alla maniera pellerossa, con rispetto, con amore, in un continuo dialogo con il grande pesce, nella consapevolezza del legame che li unisce.
Così, mentre Achab in realtà detesta il mare, e lo percepisce come ostile, come un nemico da sottomettere, Santiago con il mare è un tutt'uno, esso è la sua casa, il suo ambiente naturale.

Diversamente da Achab, egli è un uomo semplice e per questo naturalmente umile: “Era troppo semplice per chiedersi quando avesse raggiunto l'umiltà. Ma sapeva di averla raggiunta e sapeva che questo non era indecoroso e non comportava la perdita del vero orgoglio”, ma proprio per questa umiltà naturale, spontanea, egli accetta e conosce il mare e i suoi ritmi e le sue stagioni e sa vivere in armonia con esso, fino a chiamare amico il pesce che uccide.

Così solo chi è umile può vivere in armonia con la Creazione, con se stesso, con il proprio corpo, con il mare che perennemente si muove nel profondo dell'anima, mentre il superbo, colui che si crede potente, vive in una continua lotta contro se stesso nel vano tentativo di uccidere il mostro che intuisce abitare nel fondo delle proprie acque..
Ma Dio è colui che sottomette il mare! Tutta la Creazione Gli appartiene, tutte le forze del mondo, comprese quelle inconsce, sono Sue. Per questo tra rifiuto e abbandono ci si offre una terza via.

Egli è Colui che cammina sulle acque: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?” (Mc. 4,41). Anche il libro di Giobbe presenta come un grande mistero il dominio di Dio sul mare: “Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, e gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: «Fin qui giungerai e non oltre e qui s'infrangerà l'orgoglio delle tue onde»?” (Gb. 38,8-11). E fin dall'inizio lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque.
Sì, Dio, il Creatore è Colui che sa dare un corso e un limite perfino al mare, che sa armonizzare tutte le forze, anche quelle dell'inconscio. Colui che prende per la briglia Moby Dick e lo governa. Non per nulla la Bibbia dice che ha creato il Leviathan come il suo giocattolo (Sal. 104,26).

È così bello che sia stato Lui a dare un corso e un limite all'impeto del mare! Significa che non devi farlo tu. Il tuo compito non è dominare le forze oscure che si agitano dentro di te, ma rintracciare le leggi che per esse ed in esse sono state già poste nella Creazione, le leggi legate al tuo corpo, alla tua femminilità, alla tua affettività, e riscoprirle e farle tue.
Non sei tu a dare la misura alle cose, non sei tu a dirigerne il corso, non spetta a te inventarne il senso… quanto è riposante tutto questo, quanto è dolce abbandonarsi nell'armonia della Creazione!

Eppure una volta che queste leggi sono state esperite e comprese occorre pur governarla questa umanità, perché c'è poi tutta una vita da vivere. È ben per questo che il creatore ha voluto che Adamo fosse il custode del giardino. E il giardino è certamente il mondo, ma in particolare nel mondo il giardino sei tu, sei tu la prima e più importante parte del mondo che ti è stata affidata da custodire e governare, tu e la tua femminilità, i tuoi sogni, i tuoi desideri, la tua carne.

Ascolta allora la seconda strofa del nostro inno:

2) La terra e la fecondità

Nella seconda strofa l'inno continua:Tu all'aspre solitudini/ della terra assetata/ donasti il refrigerio/ dei torrenti e dei mari e così un secondo simbolo intreccia il suo volo con il primo.

La terra, come l'acqua, è un archetipo potente, primordiale. La terra è il corpo, la terra è il duro lavoro, è la realtà, la civiltà, la famiglia. Dove il mare evoca una immagine di libertà ed al negativo di caos, la terra evoca una immagine di stabilità, di solidità, di tutto ciò che è ben piantato. Naturalmente anche questo simbolo ha un suo doppio negativo che è la quiete della morte, la stabilità che diventa fissità, rigore, pesantezza.

La prima cosa da dire è che la terra emerge dalle acque, in un certo modo ne è figlia: “Hai fondato la terra sulle sue basi, mai potrà vacillare. L'oceano l'avvolgeva come un manto, le acque coprivano le montagne. Alla tua minaccia sono fuggite, al fragore del tuo tuono hanno tremato. Emergono i monti, scendono le valli al luogo che hai loro assegnato. Hai posto un limite alle acque: non lo passeranno, non torneranno a coprire la terra” (Sal. 104,5-9). Terra e acqua quindi sono simboli relativi, non stanno da soli: la terra si raggiunge e si riceve in dono sempre attraverso l'acqua, la solidità delle scelte è figlia della libertà caotica dell'inconscio. Anche per giungere nella Terra Promessa Israele dovrà attraversare il mare.

In questo inno, comunque si parla di una terra che ancora è deserto, ancora è aspra solitudine. Non è ancora heretz, la terra umanizzata, lavorata, resa docile dalla fatica umana, resa casa accogliente. È midbar, la terra primordiale, come un grembo materno, come un utero in attesa di essere fecondato. E la cosa sorprendente è che questo grembo resterebbe infecondo senza il refrigerio dei torrenti e dei mari.

La stabilità della terra ha bisogno della libertà del mare; la corporeità, la realtà, ha bisogno della fantasia, dell'immaginazione.

Senza questo incontro non c'è fecondità: l'acqua senza la terra si spande senza misura né senso, ed inevitabilmente si perde senza costruire nulla, la terra senza l'acqua resta immobile e fissa e non può generare nulla. La terra senz'acqua resta midbar, deserto, il luogo dove non c'è vita, ed è assetata perché sa di non poter generare ed anela alla fecondità.
La tua terra, il tuo corpo, la tua umanità, la tua realtà, senza le acque che si agitano nel tuo profondo resta senza vita e la fecondità, che pure desideri con tutta te stessa, ma non puoi darti da sola, è impossibile senza attingere a quelle fonti ctonie che sono nel tuo intimo.

Quanti preti, quante suore, restano infecondi nel loro ministero proprio perché non hanno il coraggio di attingere a queste sorgenti!

Quanti cristiani vivono una fede soltanto ideologica, ridotta a puro razionalismo, evirata della grazia dell'incontro, tanto che a stento meriterebbe il nome di fede e gli si adatterebbe assai di più quello di gnosi! Hollow men li definirebbe Eliot, con una perfetta descrizione di questa fede senza vita e senza amore: “Shape without form, shade without colour, paralysed force, gesture without motion”.

Così l'acqua caotica, la fonte primordiale della vita, la potenza oscura che si agita in noi, una volta che ha ricevuto il corso e il limite diventa rinfrescante, non fa più paura. Anzi “naufragare in questo mare” può essere perfino dolce: le aspre solitudini della terra assetata una volta fecondate dall'acqua diventano le dolcezze della comunione, perché se la midbar è resa heretz dal lavoro umano (dall'autodisciplina, dalla dura fatica della correzione fraterna, in una parola dalla sottomissione alla Legge), tuttavia questo lavoro sarebbe inutile senza l'acqua che la terra riceve in una duplice forma: dal profondo della terra e dall'alto del cielo.

3) Acqua che sale dalla terra, acqua che scende dal cielo

È infatti il lavoro dell'uomo che fa salire dal profondo le sorgenti: “Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l'acqua dei canali per irrigare tutto il suolo-; allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen. 2,4-7). E tuttavia non è l'uomo a fabbricarle, queste sorgenti. Sono già là, nel profondo, e anche se spetta a noi e al nostro lavoro renderle disponibili per la terra, perché possano dissetare e nutrire, non possiamo nemmeno pretendere di avere su di esse un controllo totale.

L'acqua-che-sale-dalla-terra è, e deve restare, un mistero, sebbene la sua gestione sia affidata a noi.

Oltre all'acqua che sale dalla terra il testo di Gen. 2 ne presenta un'altra che scende dal cielo, sotto forma di pioggia.
Ci sono per così dire due forme della Grazia: c'è la Gratia gratis data, che, come la pioggia sulla terra, scende gratuitamente sulla tua umanità senza che tu debba fare nulla, e c'è la Grazia che domanda la tua cooperazione che, come l'acqua sorgiva, ha bisogno del tuo lavoro per essere canalizzata e giungere là dove serve. Potremmo parlare di una Grazia celeste ed una Grazia terrestre (se non si corresse qualche rischio di equivoco usando questo linguaggio, ma confido che possiate capire).

La prima è tutta da Dio e ti raggiunge senza alcun merito, è come la Parola che cade su di noi e produce nell'anima ciò che annuncia: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata” (Is. 55,10-11).

La seconda invece è altrettanto divina nella sua origine, ma è tutta interiore, è come l'eco di quel soffio del nefesh infuso in Adamo, è la presenza in te del divino, la voce della coscienza come la chiama il Concilio Vaticano II, lo Spirito Santo presente in te fin dal Battesimo: “C'è un'acqua viva che mormora dentro di me e mi dice: Vieni al Padre” (S. Ignazio di Antiochia). Potremmo forse parlare di una Grazia-nello-Spirito, riservata ai battezzati, e di una Grazia-nella-Creazione comune a tutti gli uomini.

Questa Grazia-dalla-terra non è l'inconscio, ma il divino presente nell'uomo; che però raggiunge la mente cosciente passando attraverso gli stessi canali dell'inconscio, così che è assai facile ad un occhio inesperto confonderli. La Grazia e l'umanità, l'acqua pulita e quella inquinata, si danno insieme, anche perché raramente si presentano alla mente in forma pura. È assai raro infatti che i moti spontanei dell'amore siano del tutto privi di egoismo, è altresì raro che la Grazia giunga a noi senza essere accompagnata da una effusione spontanea di intima gioia che sorge da dentro, cioè in definitiva dall'inconscio.

Mi piacerebbe che la scienza psicologica esaminasse con più attenzione i rapporti tra l'inconscio e la Grazia. Poiché non siamo meri animali infatti, sono certo che il nostro inconscio non reagisce solo ai piaceri istintivi come mangiare, bere, dormire e far l'amore, ma anche a quelli più elevati, sono certo in altre parole che esista anche nell'inconscio uno spazio del divino, una apertura trascendentale a Dio, che quando viene colmata dalla Grazia suscita piacere. Gli studi di Maria Montessori e di Viktor Frankl mi sembra che vadano proprio in questa direzione.

Con maggiore chiarezza: non è anche l'amore naturale, l'eros spontaneo, l'attrazione per tutto ciò che è bello, nobile e giusto, il desiderio di fecondare ed essere fecondati, l'aspirazione alla maternità, il gusto del cibo e quello dei profumi, la passione per la musica o lo sport, insomma tutto ciò che è vivo, una eco del soffio divino che abita in noi? Eco da purificare, senza dubbio, eppure da non spegnere, anzi da esaltare, perché nessuno può essere santo senza essere innanzitutto uomo.

Come collaborare con la Grazia terrestre?

Innanzitutto dobbiamo imparare a distinguerla da altri moti dell'anima, a riconoscere la voce di Dio tra le molte che parlano nel fondo del cuore. Ci vuole molto discernimento per questo, anche per non correre il rischio di buttare via il buono con il cattivo.

Non avete certo bisogno che vi parli delle tecniche di discernimento. A me ne sono particolarmente care tre: quella ignaziana della compresenza di croce e gioia, quella che io chiamo la tecnica WWJD (What Would Jesus Do?) che ho imparato dai pentecostali, ma è ben presente anche in campo cattolico, e quella, forse più semplice, che chiamo del maggiore amore, che consiste nel chiedersi in ogni decisione dove sta il maggiore amore.

4) L'acqua di Cristo

A partire da qui si accede ad un livello ulteriore dell'amore. Più alto, più profondo, più largo, più sottile. Ciò che in definitiva è lo Spirito Santo. Non per nulla nella terza strofa l'inno conclude: “Irriga o Padre Buono/ i deserti dell'anima/ con i fiumi di acqua viva/ che sgorgano da Cristo”. Il riferimento a Cristo aggiunge a tutte le considerazioni fatte fin qui un livello indeducibile dalla sola natura umana. È l'acqua viva che solo il Cristo può dare (Cfr. Gv. 4,10). “…Signore tu non hai un secchio, e il pozzo è profondo…” (Gv. 4,11).

Profondo lo è senza dubbio, ne abbiamo già parlato: quel pozzo, quello da cui attingiamo l'acqua per vivere, affonda fino alle radici stesse della terra, è come un canale aperto, una via che ti conduce nel fondo della tua umanità. Quindi occorre un secchio, qualcosa che ti consenta di scendere in profondità, fino alle sorgenti, per raccogliere l'acqua-che-sale-dalla-terra, la Grazia terrestre. Il secchio, ciò che ti consente di scendere nelle profondità della tua terra fino a raggiungerne le sorgenti, è l'altro, o meglio: il secchio è l'incontro.

Come direbbe Buber è la “tuità” dell'altro, il fatto cioè che ti viene incontro come dono, nel suo essere-per-te. L'emozione suscitata da questa esperienza (un uomo ti è stato donato) apre in te il pozzo; l'acqua allora comincia a scorrere copiosa, forse all'inizio si presenterà mista al fango, è sempre così quando si apre un pozzo nuovo, bisogna allora non avere paura e continuare a scavare nel rapporto, nell'incontro, per poter raggiungere le falde più profonde.

Eppure, per quanto buona, quell'acqua non è capace di dissetare definitivamente. La Grazia terrestre, la Grazia-nella-Creazione, non basta a farti superare la forza di gravità del tuo naturale egoismo e quindi resta sempre sotto il dominio della legge, della regola, che in sé non vince il peccato e ti lascia perciò esposta al pericolo di ricondurre il dono dell'incontro nella schiavitù del possesso, per questo “chi berrà di quest'acqua avrà di nuovo sete”, per questo Gesù promette un'acqua viva, libera dalla legge.

E allora Gesù si fa secchio, cioè si fa tu da incontrare.

Nell'incontro con Lui, come in un innamoramento, le sorgenti dell'inconscio zampillano, ma la forza della Sua umanità pienamente verginale dà corso e limite a questo zampillo e l'acqua-che-sale-dalla-terra diventa così acqua viva, cioè pura. È un'acqua che non ha più bisogno di una legge, perché l'incontro con Cristo le ha già dato il suo corso ed il suo limite, quello stesso incontro è tutta la legge di cui ha bisogno per essere acqua viva. La donna ancora non lo sa, ma fin dal primo istante in cui ha parlato con Gesù, fin dal momento in cui si è lasciata affascinare da Lui, ha cominciato a bere di quest'acqua.

È Gesù ultimamente la sorgente della Grazia. Di ogni grazia, anche di quella terrestre presente nell'inconscio. Da lui viene l'acqua viva, sia quella che scende dal cielo (e che viene solo da Lui) sia quella presente nel fondo della nostra terra, mescolata alle acque primordiali dell'anima. È Gesù, in quanto Logos, il corso e il limite di ogni cosa, è Lui che dà senso e misura alle acque rendendole così vive, da morte che erano, rendendole adatte alla vita, capaci di fecondare e generare.
Il senso del tuo inconscio, della tua femminilità, è la fusione con Lui. Tutto in te aspira a Lui, anche le passioni più terrestri, più umane, più ctonie, sono alla fine dei conti orientate verso di Lui, così che si potrebbe dire che il peccato non consiste nel voler soddisfare il proprio desiderio, ma nel volerlo soddisfare troppo presto, accontentandosi di obbiettivi parziali, intermedi, invece di puntare decisamente e senza remore all'obbiettivo finale, escatologico, di ogni desiderio, all'omega di tutto ciò che sei: Gesù, il Figlio di Dio.

Facendosi uomo in un certo senso Dio compie l'atto finale della Creazione, nel senso che solo nell'Incarnazione appare la definitiva Verità sull'uomo. Solo Cristo rivela l'uomo all'uomo. Solo guardando a Lui quindi puoi davvero comprendere e governare l'acqua nel profondo, solo attraverso di lui puoi dissetartene senza paura ed esserne fecondata. Solo in Lui infatti appare la perfetta padronanza dell'inconscio, secondo una mirabile pagina di Romano Guardini: “Gesù non ha paura della sessualità, non la disprezza né la combatte. Non si trova mai neppure un segno che possa indicare che abbia dovuto reprimerla a forza. Perciò potrebbe sorgere spontaneo l'interrogativo se egli sia stato insensibile, come certe persone che non conoscono né lotta né superamento, perché sono in realtà anaffettive e indifferenti. Certo no! L'essere di Gesù è pieno di profondo calore, tutto in lui vive. Tutto è sveglio e colmo di energia creativa. Con quale partecipazione si accosta alle persone! Il suo amore per loro non viene da dovere o volontà, ma si effonde di per sé. L'amore è la forza fondamentale del suo essere. (…) Ma nessuno scoprirà in questi rapporti qualcosa come un legame segreto o delle brame rimosse. Sono espressioni di una limpida e calda libertà. Quando riflettiamo su Gesù troviamo che in Lui tutto è ricco e vivo, tutte le sue energie però sono assunte dentro il cuore, sono diventate forze dell'amore, volte a Dio ed in un costante fluire verso di Lui (…) Ciò che appunto costituisce la dimensione inafferrabile della persona di Gesù sta nel fatto che la pienezza delle sue energie vada così, senza alcuna forzatura né violenza, senza distorsione, senza aggiramento malizioso verso Dio e da Dio poi vada verso l'uomo. Che tutto dunque sia così puro e trasparente. Da lui, che ha parlato così poco della sessualità, emana una forza che pacifica, purifica e domina queste potenze come nessun altro”.

Così vive un uomo la cui terra è diventata interamente heretz, fecondata dall'acqua del profondo: Grazia celeste e Grazia terrestre in perfetta armonia!

Se l'inno che stiamo contemplando ci invita a irrigare i deserti della nostra anima con questa acqua viva allora vuol dire che vivere così è possibile! Non è un inganno, né una presunzione, possiamo davvero essere una terra, cioè una corporeità, pienamente integrata, come quella di Gesù. Non sarà forse anche questo il senso di quel “corpo spirituale” che ci attende alla fine dei tempi? Non sarà anche questo quel “vivere da risorti” di cui parla S. Paolo?

Scrive S. Giovanni Paolo II: “Nella redenzione tutto diventa nuovo. All'uomo in un certo senso viene ridata la sua maschilità, la sua femminilità, la capacità di essere per l'altro, la capacità dell'essere reciproco nella comunione”. Perché allora vivere come se fossimo ancora schiavi del peccato? Dio non ci ha dato uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da Figli liberi, per gridare con tutta la nostra vita, con tutta la nostra terra, Abbà Padre (Cfr. Rom. 8,15 ma tutto il capitolo è significativo in questo contesto).

Una sola cosa devi temere perciò, ed è di non seguire lo Spirito, perché se segui la legge sei ancora dentro l'orizzonte della carne, e ne resti quindi condizionata e schiava, se invece segui lo Spirito sarà questo a mettere ordine, a dare un corso e un limite alle acque rendendole così feconde per irrigare l'anima (Cfr. Gal. 5). Anche S. Giovanni Paolo II, in una lettera a Wanda Poltawska, parlando del rapporto tra Giuseppe e Maria e per estensione di ogni amicizia, commenta le parole dell'angelo a Giuseppe: “non temere di prendere con te Maria” con un concetto analogo: “Temi solamente una cosa: di non appropriarti di questo dono, questo solamente temi. Per tutto il tempo che lei rimane per te il dono di Dio stesso, puoi gioire tranquillamente di tutto ciò che quel dono è. Anzi, di più, dovresti fare tutto ciò che è in tuo potere (…) per mostrarle che dono irripetibile è. Dio vuole che tu le dica proprio ciò in cui consiste il suo valore irripetibile, nonché la sua particolare bellezza. In questo caso non temere il tuo compiacimento”.

5) Dal cuore trafitto

C'è un'ultima cosa da sottolineare: nell'inno si dice che i fiumi di acqua viva sgorgano da Cristo, sgorgano cioè dal Suo costato trafitto, dal suo cuore ferito. Questo ci dice che non è possibile ricevere tutta questa Grazia se non passando attraverso la crocefissione. Anche la terra deve essere in un certo modo ferita perché l'acqua possa sgorgarne. Anche l'acqua che sale dalla terra dovrà passare attraverso quella ferita per ricevere il corso e il limite.

È per questo che Mosè deve percuotere il mare con il suo bastone, è per questo che deve gettare un legno nelle acque di Mara, perché è il legno della croce che traccia una via in mezzo alle acque caotiche del nostro inconscio, ed è sempre il legno della croce che le rende potabili, cioè utili alla vita.

Non si può vivere da risorti senza prima morire. Non si può dominare il mare che abbiamo dentro senza essere morti d'amore, perché questo significa la croce, amare fino a morire. È questo amore sovrabbondante, eccessivo, che ci farà da guida, che aprirà la strada per noi attraverso il mare, simbolo di morte per gli egiziani, ma per noi unica via alla salvezza. In mezzo al caos dei nostri sentimenti e dei nostri istinti l'amore della croce è la sola guida sicura, la sola via aperta.
Alla fine dei conti è la croce il vero test che dice la verità di tutto questo discorso. Senza croce sarebbe tutta un'autoillusione un po' new age, oppure, che è lo stesso, la presunzione di vivere da déi senza Dio, sarebbe cioè la pretesa di sottomettere il proprio inconscio unicamente con le proprie forze.

Ma l'acqua che sgorga dal costato di Cristo sgorga insieme al sangue. Non c'è acqua senza sangue, perché non c'è amore più grande di quello di chi dà la vita. Se amiamo seriamente, l'amore spezzerà il nostro cuore. Chi non ha mai sofferto non ha mai amato, ma solo da un cuore spezzato, solo da una terra ferita può sgorgare l'acqua pulita che irriga e feconda i deserti dell'anima. Chi fugge dal dolore non fiorirà mai, resterà midbar, terra arida ed infeconda, per tutta la vita, chi invece lo abbraccia, chi è disposto a perdere la sua vita per amore, diventerà “come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono” (Is. 58,11).

Se dunque è l'amore crocefisso la via e la chiave per irrigare i deserti dell'anima con i fiumi di acqua viva allora quella riflessione iniziale sul corso e il limite, sulla misura delle cose acquista un senso nuovo e totalmente differente, poiché come dice S. Bernardo: “la misura dell'amore è amare senza misura”, allora dare un corso e un limite alle cose non è limitarsi moralisticamente, vietarsi di amare rimanendo confinati nella paura, ma proprio al contrario è permettere alle proprie potenze interiori di esplodere in tutta la loro vitalità, senza più timore perché l'amore perfetto scaccia il timore (Cfr. 1Gv. 4,18) ed abbiamo ormai compreso la verità di noi stessi, la giusta direzione da dare alla nostra vita.

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