La povertà viene considerata un aspetto sostanziale del Vangelo, ma al contempo è difficile determinarne il punto di applicazione
di Card. Silvano Piovanelli
L’evangelista Luca dice (6,20): “Beati voi poveri (ptokòi), perché vostro è il regno di Dio”. Matteo (5, 3) precisa: “Beati i poveri in spirito, perché vostro è il regno dei cieli”. “Oi ptokòi to pneumati”: la frase grammaticalmente consta di un aggettivo (povero) e di un sostantivo al dativo di relazione (spirito).
In forza di tale costruzione le qualità espresse dall’aggettivo (in questo caso la povertà) risiedono nel sostantivo (nel cuore, nello spirito). Dunque sono possedute non semplicemente col desiderio, ma realmente. Non è perciò la povertà che “si spiritualizza”, ma è lo spirito, cioè l’uomo, la persona umana che si impoverisce, che cioè acquista lo stato, il comportamento, la convinzione di un povero ideale.
La povertà viene considerata un aspetto sostanziale del Vangelo, ma al contempo è difficile determinarne il punto di applicazione. La prima soluzione estrema è definire la povertà evangelica esclusivamente come atteggiamento interiore di distacco. La seconda soluzione estrema è elevare a valore assoluto e supremo la privazione dei beni materiali.
Il Papa San Leone Magno spiega: “A quale sorta di poveri allude la verità? Forse potrebbero sorgere equivoci se dicendo “Beati ipoveri”, non aggiungesse nulla. Ma dicendo “Beati i poveri in spirito” insegna che sarà ricompensato con il Regno chi è raccomandato da un cuore umile più che dalla mancanza di mezzi. Né può esserci dubbio sul fatto che i poveri raggiungono il bene di questa umiltà più facilmente dei ricchi: spesso infatti alla privazione degli uni si accompagna la sottomissione, mentre alla ricchezza degli altri si accompagna la superbia. Eppure anche in molte persone facoltose si nota uno spirito che le porta ad usare delle proprie sostanze non già per se stessi ma per opere di bene, e a considerare immenso guadagno quanto spendono per alleviare le miserie e le sofferenze altrui”.
Poveri nello spirito, infatti, non si nasce, ma si diventa e si rimane a costo di immani sacrifici e continue rinunce contro le istintive aspirazioni dei sensi, le pretese dell’intelligenza, le irrisioni della sorte, le incomprensioni degli uomini.
Quando il giovane ricco udì l’invito di Gesù a lasciare tutto per seguirlo, “se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19,22). E’ questa anche la nostra storia personale, come è la storia della nostra civiltà?
“Occorre affrontare il nocciolo della questione, domandandoci positivamente in che cosa consista la povertà evangelica. L’errore sta nel volerla spiegare partendo da prospettive umane. Occorre tornare alla Scrittura ed interrogarsi sul significato della parola povero” (Jean Daniélou).
Il “povero” (‘ptokòs” greco / “pauper” dalla radice “pau” poco), dunque. non è il rassegnato ad una condizione di indigenza o di miseria. La povertà si definisce essenzialmente nella sua relazione con Dio e non anzitutto in relazione ai beni materiali o agli altri uomini. Il povero è colui che pone la volontà di Dio al di sopra di tutto, perché ha capito che Dio è preferibile a tutto. Esprime sfiducia nei beni materiali e nelle risorse personali ed insieme bisogno e desiderio di Dio e dei beni superiori. La povertà evangelica è libera anche dalla povertà e consiste nell’essere liberi da tutto, tranne che dalla volontà di Dio. La privazione sarà buona se voluta da Dio, ma lo sarà anche la prosperità se voluta da Dio.
Il biblista A. Gelin ammette che la prima beatitudine, nella sua formulazione originaria, non poteva parlare che di “poveri”, senza la precisazione “di spirito”. E spiega: “Si crederà con ciò che Gesù abbia beatificato una classe sociale? Nessuna categoria sociale è canonizzata; Nessuna, come tale, viene posta in rapporto diretto col Regno; soltanto una situazione “spirituale” può accogliere un dono spirituale; solo la fede confidente apre l’uomo alla grazia di Dio. E’ questa apertura a Dio che si chiama povertà spirituale. Che la povertà reale sia una strada privilegiata verso la povertà dell’anima, un terreno in cui più facilmente germoglia quest’ultima, che valga la pena accettarla e talvolta anche ricercarla, come avviene in montagna con le faticose marce di avvicinamento, tutto questo è vero e ripetuto nel Vangelo. Qui Gesù non dice di più di quanto non dica nel masal sulla cruna dell’ago (Mt. 19,24). Egli ha richiamato la condizione e il presupposto di un comportamento religioso. Non pensiamo dunque. a proposito (della prima beatitudine), anzi a sproposito, ai proletari. né a “coloro che si sentono nella miseria”. Per qual motivo queste situazioni sociali sarebbero meritorie per il cielo? Senza dire che l’uditorio di Gesù nel Discorso della Montagna comprendeva un certo numero di piccoli proprietari … il “povero” è il “cliente” di Dio, colui che ha scommesso su Dio, che non ha in se stesso il suo punto di appoggio, che è aperto verso Dio nella confidenza della fede” (A. Gelin).
La povertà di spirito ha un’accezione più estesa della povertà materiale, ma non può totalmente prescindere da questa.