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Nella coppia una cosa funziona meglio della telepatia: la comunicazione

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Sugarco Edizioni - pubblicato il 19/08/15

Spesso, anzi sempre, l'unica soluzione è quella di aprirsi, comunicare, essere sinceri
Joseph Banks Rhine (1895-1980) fu uno psicologo statunitense. Insegnò psicologia ad Harvard e alla Duke University di Durham, nella Carolina del Nord; in quest’ultima università fondò un laboratorio di parapsicologia. Utilizzando le famose «carte Zener» (un mazzo di carte con dei simboli elementari: cerchio, onde, quadrato, stella, croce) volle verificare l’esistenza della lettura del pensiero, o telepatia. Il professor Rhine accumulò una serie impressionante di successi, che convinsero la maggior parte degli psicologi statunitensi dell’epoca dell’esistenza della telepatia e delle capacità extra-sensoriali. Purtroppo, quando altri psicologi tentarono di replicare gli esperimenti di Rhine, non ottennero gli stessi risultati; nello stesso tempo si scoprì che alcuni assistenti di Rhine avevano falsificato gli esiti delle prove per renderli più favorevoli all’ipotesi telepatica.

Attualmente la comunità scientifica internazionale ritiene che non esistano prove convincenti dell’esistenza della trasmissione del pensiero; nonostante questo, la parapsicologia continua ad essere diffusa in ambienti esoterici e new-age. Inoltre, la telepatia gode di enorme credito tra le coppie sposate.

Non è raro, infatti, che molti mariti e ancor più mogli siano convinti che il coniuge possa (e quindi debba) leggere il loro pensiero e conoscerne stati d’animo, desideri, preoccupazioni. Cosa che, ovviamente, non avviene e che provoca delusioni e frustrazioni.

Un esempio di questo meccanismo è la classica situazione del « Doveva venire da te… ».

Quello che capita solitamente in questi casi è che la moglie abbia delle aspettative (ovviamente implicite) e resti molto delusa quando il marito non le soddisfa: non fa la domanda che avrebbe dovuto porre, non avanza la proposta che la moglie si aspettava, non dice quello che la consorte avrebbe desiderato. Solitamente, nonostante il fallimento, la moglie ripone molta fiducia nella telepatia e persevera, questa volta aggiungendo dei messaggi non verbali del tipo: mutismo (per almeno due minuti), irritabilità, rivendicazione di torti subiti in passato (anche remoto)…

È la stessa situazione descritta dalla famosa parabola del « figliol prodigo » (Lc 15, 11-32). Quando il figlio minore torna a casa, il padre gli corre incontro e ordina ai servi di ammazzare il vitello grasso per festeggiare l’inatteso ritorno. In quel momento il fratello maggiore torna dai campi e chiede ad un servo cosa siano quelle musiche e danze che sente. Quando il servo gli spiega che sono i festeggiamenti per il ritorno del fratello, egli va su tutte le furie e dice al padre: « Ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici ». A questo punto il padre risponde: « Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo »; risposta che potrebbe essere parafrasata con: « E che ne sapevo io che volevi un capretto? Bastava che lo dicessi! ». Ma il figlio maggiore quel capretto non l’ha mai chiesto. Lui serve il padre da tanti anni e non ha mai trasgredito un suo comando: avrebbe dovuto essere il padre ad offrire il capretto al figlio.

« Doveva venire da te… ». La soluzione è così semplice: esprimersi, parlare, chiedere. Eppure siamo così restii a farlo. Perché? Per pigrizia? Per vergogna? Oppure c’è dell’altro?

Probabilmente, dietro alla pretesa « Doveva venire da te… », c’è un desiderio che si agita nel cuore di ogni uomo. Il desiderio di un amore così assoluto, così totale da non aver bisogno di parole. È l’amore di Dio per l’uomo, come lo ha cantato Davide nel Salmo 139: « Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta ».

Tutti vogliamo essere amati così. Per questo ci aspettiamo che l’altro conosca la nostra intimità, i nostri pensieri, i nostri desideri prima ancora che noi li esprimiamo. È ciò che noi vogliamo, per cui proviamo una struggente nostalgia. Ma il nostro coniuge non è Dio. Anche se ci amasse con tutto se stesso resterebbe una creatura, con tutti i suoi limiti, compreso quello di non saper leggere il cuore degli altri uomini.

C’è un altro motivo per cui è meglio esprimersi apertamente piuttosto che delegare all’altro la responsabilità di interpretare i nostri umori.

Capita, infatti, che uno dei due coniugi prenda una sbandata per un collega, un conoscente, un amico; che una persona conosciuta da anni appaia improvvisamente meravigliosa, fantastica, e, soprattutto, perfettamente complementare: l’anima gemella, l’altra metà della mela di cui parla Aristofane nel Simposio di Platone. La questione, in realtà, è semplice e molto poco mitologica. Può essere che il matrimonio sia insoddisfacente per qualche aspetto particolare (dialogo, intraprendenza, vivacità, profondità…); aspetto che si vede rappresentato in una persona al di fuori del matrimonio. Per questo ci sembra così meravigliosa, così… complementare: essa ha ciò che ci manca, ciò che vorremmo avere. Per essere brutali, la usiamo per avere le soddisfazioni che il matrimonio sembra negarci. Ma la domanda è: abbiamo fatto tutto il possibile per rendere il nostro matrimonio come lo vogliamo? Detto altrimenti: abbiamo fatto presente al coniuge che ci piacerebbe uscire di più di sera, sentire musica dal vivo, allargare il giro di amicizie, visitare musei… oppure, anche in questo caso, « Doveva venire da te »?

Certo, non è facile dire al coniuge che il rapporto di coppia ha qualche problema; è più facile fuggire, cercare altrove quello che manca. Eppure, come sempre, la fuga non è la soluzione dei problemi.

L’unica soluzione è quella di aprirsi, comunicare, essere sinceri con il marito o con la moglie, parlare, chiedere. Abbandonare l’idea che il coniuge possa capire senza che si faccia la fatica di aprire la bocca può aiutare a rendere più vero, autentico, sincero il matrimonio. E ad evitarsi un sacco di guai.

[Tratto dal volume di Roberto Marchesini: “E vissero felici e contenti. Manuale di sopravvivenza per fidanzati e giovani sposi” (Sugarco)]

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